Convinzione non convenzione

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intervista

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Cardinale Scola, lei e Bergoglio eravate stati i protagonisti del Conclave. Il Papa non era mai venuto a Milano. Inevitabile che si parlasse di un dualismo. Era tutto falso?

«Al di là di tanti luoghi comuni giornalistici, il mio rapporto con Bergoglio è sempre stato molto buono e molto cordiale, sia nelle riunioni di cardinali, sia nei sinodi dei vescovi».

Quando vi siete conosciuti?

«Da rettore della Lateranense andavo a Buenos Aires e passavo a salutarlo. Da quando è Papa, tutte le volte che ho domandato di poterlo incontrare mi ha risposto subito e mi ha dato tutto il tempo dovuto per affrontare questioni anche delicate. Tra noi non c’è mai stata incomprensione o cattiva volontà. Si sono costruite immagini falsate del Conclave».

Perché allora non rendere tutto pubblico?

«Forse, ma la riservatezza sul Conclave è al servizio della comunione nella Chiesa: quindi del Conclave non si parla».

Di quali «questioni delicate» avete trattato con Bergoglio?

«Per esempio dei “delicta graviora”».

Pedofilia?

«Sì. E il Papa è stato molto netto su questo punto. Dall’esterno spesso non si coglie l’impegno della Chiesa verso le vittime, e anche verso chi ha gravemente sbagliato. Le procedure poi sono molto complesse».

La visita del Papa a Milano sarà ricordata come storica.

«Straordinaria. Un milione di persone a Monza, forse mezzo milione lungo il percorso. Molti sono partiti da casa alle 7 del mattino e sono tornati a mezzanotte dopo aver fatto 10 chilometri a piedi. E il Papa ha mostrato il suo stile di famiglia: a San Siro ha parlato davanti a 80 mila ragazzi come se fosse davanti a otto nipoti, spiegando loro l’importanza dei nonni, dei rischi del bullismo, della responsabilità dei genitori. È la dimostrazione che c’è ancora un cristianesimo di popolo tra noi. Ma anche che la Chiesa di Milano ha in Europa la posizione più difficile che esista».

Perché?

«In ogni occasione di incontro sono sorpreso dalla persistenza di un senso spontaneo di fede: la gente si raccomanda per i propri bisogni, chiede una preghiera per il figlio che sbanda o la moglie o il marito che è andato via. Ma — lo notava già Montini — quando si esce di Chiesa i criteri di valutazione della vita quotidiana sono quelli dominanti forniti dalle agenzie culturali di oggi. Il fossato tra la fede e la vita si è allargato. Ho ripreso questo tema nella visita pastorale: insistendo sulla necessità di avere la stessa mentalità di Gesù, gli stessi sentimenti di Gesù. A Milano dobbiamo passare con più decisione dalla convenzione alla convinzione».

Il suo nuovo libro in effetti si intitola «Postcristianesimo?». Con il punto interrogativo però.

«Certi intellettuali, e non solo, considerano il cristianesimo un fatto superato; e lo fanno credendo di interpretare i comportamenti del popolo. Non è così: il Vangelo di Gesù resta pertinente e attuale. Dinnanzi ad un clima culturale confuso che io definirei di “babelismo”, il Papa ci indica la strada della pluriformità nell’unità, accettando il confronto con tutti. La Chiesa deve tornare a essere luogo appassionato di attrattiva, non luogo che genera noia».

L’abbraccio di Milano a Bergoglio è stato impressionante.

«È così. Una parola che sentivo molto nelle sue corde: consolazione. I cittadini di Milano e delle terre ambrosiane avevano bisogno di un abbraccio comunitario che li strappasse dal grigio della solitudine e facesse riaffiorare in loro il gusto del vivere. Il Papa l’ha detto in Duomo, criticando il rischio della rassegnazione da cui deriva l’accidia. La gente ha risposto con autentico entusiasmo; anche a San Vittore. Ovunque gli hanno chiesto preghiere, l’hanno ringraziato per la visita. Erano tutti lì per lui; alla sera col buio piazza del Duomo era ancora strapiena per vederlo passare».

Lei fino a quando resterà arcivescovo di Milano?

«Non lo so. Ho presentato la mia rinuncia a novembre, quando ho compiuto 75 anni. Attendo di parlarne con il Santo Padre: tocca a lui decidere. Certo non resterò per molto tempo».

Tornerà nella sua Malgrate, su quel ramo del lago di Como?

«Vicino. Ho trovato una canonica vuota in un piccolo paese, Imberido. Si vedono i laghetti della Brianza: Oggiono, Annone, Pusiano. I corni di Canzo, il monastero di San Pietro al monte. E poi il Resegone e le due Grigne. Torno a casa».

Cosa farà?

«Il prete. Celebrare messa, confessare, incontrare la gente, pregare più regolarmente di quanto non riesca a fare ora. Leggere e scrivere, se ne avrò le forze».

La canonica è vuota perché il prete è uno dei mestieri che gli italiani non vogliono più fare.

«Fare il prete è proprio bello. Certo, il problema delle vocazioni è complesso. Molti sottovalutano la crisi demografica: la scelta era più facile quando si facevano più figli e la proposta della Chiesa era più incidente. Come ci dice il Papa, se noi non riprendiamo la proposta del Vangelo come realtà attrattiva, perché un ragazzo di oggi dovrebbe assumersi un compito di grande sacrificio, che ha perso prestigio sociale? Anche qui, il passaggio dalla convenzione alla convinzione non si è ancora compiuto. Ma la stessa cosa si può dire per il fare famiglia».

Non crede che servirebbe anche consentire ai preti di sposarsi? Pare che Bergoglio ci stia pensando.

«Non mi risulta. È giusto che approfondiamo sempre le ragioni della scelta del celibato; ma nella Chiesa esiste un magistero, e il magistero dà indicazioni. Paolo VI e i suoi successori hanno riflettuto in profondità su questo tema».

Qual è la sua opinione?

«Il celibato non è una regola estrinseca. Affonda le sue radici nello stile di vita di Gesù, nell’opzione della verginità, che con l’obbedienza, la povertà e la castità è sempre stata sentita dalla Chiesa latina come un alimento sorgivo e potente del sacerdozio. Non è solo il “cuore indiviso” di cui parla Paolo. È la scelta di offrire la rinuncia alla dimensione “genitale” della sessualità per nulla anteporre all’amore di Cristo, che il celibe intende imitare “sine glossa”, “senza aggiunta”».

Non è una rinuncia crudele?

«Al di là delle fragilità, trovo nei sacerdoti molta gioia e molta serenità di fronte a questa vocazione che si lascia prendere a servizio della domanda di senso degli uomini. In particolare, gli sposi sentono i preti come accompagnatori spirituali di una vita. Uomini capaci di rispettare una cosa che vedo poco rispettata: l’autentica dimensione sessuale dell’io. Tutti dobbiamo fare i conti, dalla nascita alla morte, con questa dimensione della nostra personalità. Un accompagnamento spirituale personalizzato risulta un grande dono offerto alla società. Anche molte persone che dicono di non credere si rivolgono ai sacerdoti per un aiuto».

Cosa pensa delle donne diacono?

«Sotto questa parola passano esperienze molto diverse. All’ultimo sinodo un arcivescovo ucraino ha detto che la “diaconessa”, da loro, era una devota che puliva l’altare. Il cardinale di Ouagadougou ha sostenuto che noi occidentali siamo rimasti colonialisti, non ci rendiamo conto che esistono problemi molto più urgenti come, in Africa, la poligamia...».

Lei cosa ne pensa?

«Penso che non bisogna cercare la valorizzazione della donna lungo la linea di una partecipazione alla potestas di Cristo: il potere di amministrare i sacramenti. Balthasar subordinava la dimensione petrina della Chiesa alla dimensione mariana: la Chiesa come sposa di Cristo. Nella psicologia del profondo di Lacan, la donna tiene il posto di Dio. La vocazione femminile è la salvaguardia del posto dell’altro. Questo non significa che la donna non possa avere posizioni di responsabilità anche in curia, nelle università, nei tribunali, nello studio della teologia, nell’educazione al bell’amore, persino nella formazione dei seminaristi».

Chi vorrebbe come suo successore?

«Un uomo di fede e libero. Tendenzialmente pacifico, ma capace di far vincere l’unità nel conflitto, senza fuggire il conflitto».

Quale consiglio gli darà?

«Quello che mi diede Giovanni Paolo II quando mi mandò a Venezia: sii te stesso».

Quale Milano lascia?

«Sono contento della Milano che lascio. Non perché non ci siano contraddizioni, ma perché vedo molti segni di rinascita».

Quali contraddizioni?

«Il Papa stesso ce li ha indicate: emarginazione, ingiustizie, ancora troppa sofferenza. Troppi giovani stranieri da mesi in carcere in attesa di giudizio. Troppe sacche di povertà. Molte difficoltà nell’affrontare il tragico problema dell’immigrazione. Finanza ed economia sganciate dal reale».

Lei ha sempre esaltato il «meticciato». I migranti ora sono troppi?

«L’immigrazione fa paura perché mette in discussione il nostro stile di vita. Non è un’emergenza; è un fenomeno che durerà decenni. L’Europa doveva fare una sorta di piano Marshall e non l’ha fatto. La Chiesa non può chiudere gli occhi. Offre il primo abbraccio. La forza generosa di Milano può individuare strade paradigmatiche per l’Italia e per l’Europa».

Ad esempio?

«Parecchi ragazzi musulmani già frequentano gli oratori. Lì sono aiutati a praticare la loro religione, a dire le loro preghiere, a mangiare i loro cibi, restando insieme ai ragazzi cristiani».

Il patriarca di Venezia non è cardinale, come l’arcivescovo di Torino e quello di Bologna. È uno dei tanti segni che con Bergoglio la Chiesa italiana conta meno di prima?

«Le cose sono in forte evoluzione in tutta Europa. Questo Papa ha rappresentato per noi europei una pro-vocazione, in senso etimologico: ci ha messo di fronte senza sconti alla nostra vocazione. L’Italia ne sente un pochino di più il contraccolpo rispetto ad altre Chiese. Il problema è non ricadere nella tentazione dello scontro ideologico. Occorre assumere il magistero del Papa nella sua articolata complessità: “unità da poliedro”, come dice lui. In Papa Francesco vedo quattro elementi: la testimonianza in prima persona; l’uso degli esempi; la cultura di popolo; l’insegnamento vero e proprio. Tutti e quattro vanno tenuti insieme. Se si separa uno e lo si mette contro l’altro, se si tenta di catturare il Papa schierandolo dalla propria parte, si entra nell’ideologia. E l’ideologia ha pesato molto, troppo, tra gli anni 70 e i 90. Ora siamo chiamati a uscire da questa logica stagnante per fare spazio al diverso, ad ascoltarci in profondità, mettendo prima ciò che viene prima: la comune appartenenza alla Chiesa».

Intervista al Cardinle Angelo Scola di Aldo Cazzullo
Corriere della Sera
1 aprile 2017

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