Verso il Natale

luce avvento

La domanda che abita al centro del nostro cuore e ci fa inquieti e pensosi, è la domanda sul perché del dolore, della morte e dell’inesorabile fine di tutto. Se non ci fosse questa domanda non ci sarebbe neanche il pensiero, espressione della lotta di ciascuno di noi contro il potere delle tenebre che vorrebbero inghiottire ogni cosa. Vivere è accettare questa lotta per imparare a morire, a dare senso alla vita e alla sua fine, educandoci ad accogliere la sfida silenziosa, resistente e perseverante dell’ultimo silenzio. È inutile cercare evasioni o facili consolazioni nella presunzione di dire: «Quando ci sarà la morte io non ci sarò e finché io ci sono essa non c’è». Queste parole sono inganno, perché la morte non è solo l’ultimo atto, ma è soprattutto una presenza che incombe ogni giorno nella fragilità e nella caducità dell’esistere. Diversi per nascita, possibilità ed esperienze, gli abitatori del tempo sono solidali nella povertà, in quanto tutti siamo allo stesso modo “gettati” verso la morte, inesorabilmente diretti verso il “vallo estremo”, avvolto dal silenzio: come scrive uno dei nostri maggiori poeti, «noi non sappiamo quale sortiremo domani, oscuro o lieto; forse il nostro cammino a non tócche radure ci addurrà dove mormori eterna l’acqua di giovinezza; o sarà forse un discendere fino al vallo estremo, nel buio, perso il ricordo del mattino» (E. Montale, Ossi di seppia). È per questo che la fatica di esistere è in noi tante volte impastata di malinconia ed è perciò che, sulla vertigine del nulla che sembra affacciarsi allo sguardo, si insinua la situazione emotiva dell’angoscia. Al tempo stesso, la naturale ripulsa del nulla suscita, come per contraccolpo, la forza della domanda: che senso ha la mia vita? Dove vado con le mie pene, le consolazioni e le gioie? E quando avrò finalmente conquistato ciò che desidero, che cosa ancora potrò desiderare se non l’ultima vittoria, quella sulla morte? Giunti a considerare il fondo verso cui andiamo, proprio da esso ci viene il bisogno di lottare per vincere l’apparente trionfo della morte, segno che nel profondo del cuore, da pellegrini del tempo, siamo chiamati alla vita vittoriosa sul nulla per l’eternità. È come un’indistruttibile sete, l’attesa di Qualcuno che accolga le nostre lacrime e redima lo struggente dolore del tempo. Quando siamo soli o disperati, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per rammaricarci del nostro operato, ecco profilarsi il desiderio di Chi possa accoglierci e perdonarci e farci sentire amati al di là di tutto, nonostante tutto, vincendo l’ultimo nemico, la morte. È quanto esprime Agostino, aprendo le Confessioni: «Fecisti cor nostrum ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te» - «Hai fatto il nostro cuore per Te ed è inquieto il nostro cuore finché non riposi in te». A questo bisogno, che ciascuno può riconoscere in sé se solo ha il coraggio di guardarsi dentro senza mascherarsi dietro alibi e difese, dà voce l’Avvento: tempo del desiderio e dell’attesa, tempo della ricerca e della speranza dell’Amato che venga a colmare tutti gli spazi dell’anima. La buona novella di Gesù, il Figlio eterno venuto fra noi, ci fa sapere che Egli tornerà nella gloria, ma anche che incessantemente verrà, sebbene non con le misure di grandezza ricercate dagli uomini: il Suo avvento nell’oggi sarà umile, il Suo volto quello di un bambino, la Sua voce il gemito che si leva da una mangiatoia, il Suo dono l’amore che lo unisce alla Madre, al silenzioso Giuseppe, ai pastori, ai magi, a ogni pellegrino in cerca di luce, di senso, di bellezza e di perdono. Verso di Lui ci conduce la liturgia dell’Avvento, nutrita di profezia e suscitatrice di rinnovato ardore nell’attesa. L’incontro avverrà nel cuore della notte e il canto degli Angeli in cielo sarà il segno che la Gloria è entrata nella storia perché le nostre umili storie se ne lascino inondare e trasformare nella grazia della fede e nei gesti della carità. Se credendo Lo accoglieremo e lasceremo che la Sua presenza ci trasformi nell’amore operoso verso gli altri, allora risuonerà gioiosa e trasformante anche per noi la voce dei cori angelici: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace agli uomini amati dal Signore!”.

 

Mons. Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti Vasto