Sofferenza

Perché Dio permette la sofferenza anche dei deboli e degli indifesi ?

Dio scrive in ciascun uomo una promessa di felicità qualunque sia il suo destino terreno. Ma se questo destino è contrassegnato dalla fame, dalla malattia, dalla guerra, magari per un bambino, potrebbe obiettare qualcuno (forse i più), com’è possibile parlare di felicità?

E’ indubbio che il destino dell’uomo sulla terra è costellato dal bene e dal male, sia in senso attivo, cioè sotto forma di scelte che l’uomo è chiamato a fare con la ragione nel corso della sua esistenza, sia in senso passivo, cioè sotto forma di eventi e di circostanze che l’uomo si trova a dover subire indipendentemente dalla propria volontà. Mentre se il primo caso è in qualche modo accettabile in quanto è dato alla facoltà della ragione di cogliere la differenza tra il bene e il male, il secondo caso scatena nelle menti e nei cuori sensi di ribellione verso un destino ineluttabile e spesso terribile che si scatena contro esseri umani inermi, indifesi e incolpevoli di alcunchè, soprattutto se donne e bambini. Il denominatore comune tanto di questo “bene” quanto di questo “male”, attivi o passivi, è che è fatto da eventi e circostanze materiali: è ovvio che se con altrettanta logica riferiamo la felicità al piano delle cose terrene, ha ragione chi non comprende la promessa di felicità scritta da Dio. Questo succede perché è senso comune attribuire tanto al bene quanto al male solo valenza materiale: il bene e il male dello spirito non sono argomenti di moda e comunque si “tollerano” molto meglio, quando c’è la sensibilità di accorgersi della loro esistenza. E questo è il punto. La promessa di felicità scritta da Dio riguarda anche la felicità dell’esistenza dell’uomo sulla terra ma basata sul bene supremo dello spirito dell’uomo che è seguire Cristo, vivere in comunione con Lui, essere suo testimone nel mondo, senza se e senza ma. Allora con Lui, solo con Lui, anche nella peggiore sofferenza materiale, ogni essere umano può vivere la vera felicità e dire  “il mio giogo è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,30).

“Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo” (Gv 9,2-5). Dio non si accontenta di spartire: vuole tutto, vuole tutto il nostro cuore che gli dobbiamo offrire con la libertà di figli, “Figlio mio, dammi il tuo cuore” (Pro 23,26). E allora per godere di quella reale e terrena promessa di felicitàl’uomo deve sempre lasciarsi guidare dalla luce di Cristo, che è verità sulla libertà, perché la prospettiva della vita eterna le conferisce un senso, e libertà nella verità perché Dio lascia l’uomo libero di credere, libero di scoprire con le proprie azioni la distinzione tra bene e male. Per questo Cristo non è sceso dalla Croce, perché è la fede che deve produrre il miracolo e non viceversa (F. Dostoevskij).