Nel Natale sfida di rinascita
Nel Natale la promessa (e la sfida) di rinascita
L'incontro natalizio con gli ospiti degli Istituti Riuniti di Chieti, città della mia sede episcopale, era appena terminato. Le varie forme di disabilità, fisica o psichica, non avevano impedito a molti di loro di produrre un bellissimo spettacolo di canti e di danze. Intenso era stato poi il momento di preghiera vissuto insieme. Maria, una donna relativamente giovane e dal volto sereno, si è avvicinata timorosa, muovendo a fatica le gambe gonfie e pesanti, segnate dalla malattia da chi sa quanto tempo. "Padre, posso farti una domanda?", mi ha sussurrato invitandomi a distaccarci un po' dagli altri. "Certo", le ho risposto, intuendo che si trattava di qualcosa di veramente importante per lei. Mi ha chiesto: "In cielo ci sono le scale?". Ho colto il tremolio della sua voce e l'emozione del suo cuore. "In cielo", le ho detto, "ci sono gli angeli per portarci in braccio, così da essere tutti vicini a Gesù". Mi ha restituito uno stupendo sorriso. "Tutti", le ho ribadito, "nessuno escluso". L'ho lasciata felice.
Dei due, quello che aveva ricevuto più luce ero senz'altro io. Poco prima, avevo detto ai centoquaranta ospiti, ognuno con la sua più o meno grave disabilità: "Se Gesù dovesse nascere in questa città, sapete dove nascerebbe? Nell'Episcopio? No. In Cattedrale? No. Nel Municipio? No (e ho ammiccato al Sindaco che era presente). Gesù nascerebbe proprio qui, perché voi siete i suoi prediletti, quelli che ama in modo speciale. E se voi siete il Bambino Gesù, quanti si occupano di voi sono come il bue e l'asinello che riscaldarono il Piccolo appena nato. E i volontari che vengono a trovarvi sono come gli angeli che cantano in coro la gioia dell'amore sceso fra gli uomini". Le lacrime spuntate sul volto di una delle ospiti, quella che più si era impegnata a cantare, mi hanno fatto capire che il messaggio era arrivato.
È il messaggio che vorrei lanciare a tutti in questo Natale, nel tempo di crisi e di sofferenza in cui ci troviamo. È l'annuncio proveniente da quella Nascita: non siamo soli, un nuovo inizio è possibile, la fiducia non deve mancarci, soprattutto se a sperare non lasciamo solo nessuno. È la sfida e la promessa di una rinascita, non solo desiderata e attesa, ma possibile, se sarà frutto dell'impegno di tutti. Fiducia e solidarietà sono allora le parole in cui vorrei tradurre la speranza del Natale oggi, in questo ormai sesto anno dalle prime avvisaglie della crisi economica mondiale.
Fiducia: è forse ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno. L'ingenuo ottimismo dei tempi delle vacche grasse, in cui il consumismo regnava sovrano e molti si avventuravano a spendere ben oltre le loro possibilità, ha ceduto il posto a un pessimismo diffuso, che a tanti appare solo doloroso realismo di fronte al vuoto creatosi nelle proprie prospettive di sostentamento e di sviluppo. Non si tratta però solo della sfiducia di chi ha perduto il lavoro in età matura, né solo di quella dei giovani che si vedono davanti prospettive di disoccupazione galoppanti. È un clima generale di smarrimento, che ha liquidato i sogni della "affluent society" e l'ingenuità perfino irresponsabile di chi dava al mercato un'assoluta affidabilità, come se bastasse favorire il liberalismo economico più ampio per vedere fiorire il benessere di tutti.
La sfiducia è anche il prezzo amaro pagato da chi ha creduto nelle promesse dell'economia virtuale della finanza, fatta passare per economia reale, quasi che i giochi speculativi di alcuni fossero capaci di produrre di per sé ricchezza, sempre più distaccandosi dalla realtà della produzione e dello scambio dei beni. La sfiducia è quella che si esprime nella disaffezione dall'impegno politico di base, come dalla militanza vissuta con passione per cause di giustizia, di pace e di promozione umana. Senza fiducia, però, non si va da nessuna parte: Natale richiama credenti e non credenti, figli e protagonisti di questa società segnata da secoli di cristianesimo, a ritrovare le ragioni della speranza. Se Dio ha avuto fiducia degli uomini, facendosi uno di noi, nessuno può sentirsi autorizzato a fare del pessimismo la misura di scelte sicure, di passi non avventati. È quanto aveva intuito cinquant'anni fa il Concilio Vaticano II, con parole che ci appaiono quanto mai profetiche e stimolanti: "Legittimamente si può pensare che il futuro della umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza" (Costituzione sulla Chiesa nel Mondo contemporaneo "Gaudium et Spes", n. 31).
Per "non lasciarsi rubare la speranza", è necessario però riscoprire le ragioni della solidarietà: dalla crisi non si uscirà se non insieme. Quest'esigenza di coappartenenza e di corresponsabilità va declinata a vari livelli: nel contesto del "villaggio globale" essa si esprime nel bisogno di un nuovo ordine economico mondiale, capace di distribuire più equamente risorse e consumi. In mancanza di organismi politici transnazionali capaci di farlo, è più che mai urgente la crescita della coscienza collettiva, ispirata e educata da personalità carismatiche in grado di ricordare a tutti il primato del bene comune da promuovere e custodire. Figure come Nelson Mandela o Papa Francesco si rivelano qui decisive per stimolare la rinascita a partire dai cuori. Anche a livello locale, però, è necessario avere testimoni di speranza possibile, che non rinuncino a richiamare gli orizzonti comuni cui tendere. È ad esempio il ruolo che in Italia sta esercitando il Capo dello Stato, con altissimo senso di responsabilità, tanto più evidente se messo a confronto con l'irresponsabilità, l'egoismo di parte e il prevalere d'interessi privati in alcuni.
Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto
Il Sole 24 Ore, Domenica 22 Dicembre,2013