Quel che la Pasqua ci dice dell'amore

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Nel Vangelo secondo Giovanni la sezione chiamata “il libro dell’addio” (13,1-17,26) sta fra “il libro dei segni” (1,19-12,50), in cui Gesù si manifesta al mondo in parole ed eventi di denso valore simbolico, e “il libro della Pasqua” (18,1-20,31), in cui sono narrati i giorni della sua passione, morte e resurrezione. Il “il libro dell’addio” si apre con un versetto che racchiude il senso profondo di ciò che sarà il suo cammino pasquale: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1). Nell’originale greco l’espressione tradotta con “fino alla fine” è “eis télos”, che potrebbe rendersi con “fino al grado supremo”, “fino all’ultimo compimento” dell’amore. È come se l’Evangelista annunciasse che quanto sta per narrare è il racconto che rivelerà al mondo nel modo più alto che cosa sia l’amore. La vicenda pasquale del Figlio venuto fra noi può dunque essere accostata come la grande scuola per imparare ad amare, e proprio così come la narrazione che ci riguarda tutti, perché è “l’amore che fa esistere” (Maurice Blondel). Eugenio Montale ha saputo esprimere questa rilevanza universale dell’amore nei versi struggenti in ricordo della Moglie morta: “Ho sceso, dandoti il braccio, / almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. / Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / Il mio dura tuttora, né più mi occorrono / le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede. / Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio / non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. / Con te le ho scese perché sapevo che di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue”.

Ciò che la Pasqua di Gesù ci dice dell’amore è il suo essere un esodo da sé senza ritorno, un’offerta di sé, inseparabile dall’accoglienza dell’altro: “Tu, Padre, in me, ed io in te” (Gv 17,21). Nella vita dell’amore si danno, dunque, una provenienza, una venuta e un avvenire: la provenienza è la gratuità, l’uscire da sé nella generosità del dono, vissuto per la sola gioia di amare; la venuta è l’accoglienza della provenienza altrui, la gratitudine del lasciarsi amare; l’avvenire è la conversione delle parti, il dono che si fa accoglienza e l’accoglienza che diventa dono, l’essere liberi da sé per essere uno con l’altro e l’essere comunione per vivere una nuova libertà insieme verso gli altri. Solo chi percorre la via impegnativa della gratuità, della gratitudine e della comunione libera e liberante, cresce in profondo nella sua umanità e si apre al senso ultimo dell’esistenza. In questa luce ben si comprende perché “alla sera della vita saremo giudicati sull’amore” (S. Giovanni della Croce): gestirsi la vita nella solitudine di uno spirito sazio di sé significa non vivere. Chi pensasse di non aver bisogno degli altri resterà nel gelo di un’esistenza senza amore: chi si apre agli altri e sa farsi mendicante e sorgente d’amore, fa crescere in sé la vita e intorno a sé la comunione per tutti. Come ci insegna il Figlio nel suo totale lasciarsi amare e “consegnare” dal Padre, anche il ricevere è divino: la gratitudine umile ed accogliente è essenziale all’amore!

Questo rapporto del dare e dell’accogliere deve, infine, restare sempre aperto, se si vuole che la relazione fra i due o i rapporti con gli altri costruiscano la verità delle persone: dove ci si chiude nella sicurezza dei pochi, dove l’amore non libera energie nascoste e non suscita sempre nuovi esodi e avventi d’amore, lì l’amore soffoca e muore. Già questo dice quanto grande possa essere la fatica di amare: certo, se si guarda al mondo dei rapporti umani, l’evidenza del fallimento dell’amore potrebbe apparire addirittura inquietante. Fatto per amare, sembra che l’uomo tante volte non sia capace di amare! Possessività, ingratitudine e cattura mostrano il volto triste del non amore. Il possesso paralizza l’amore, perché impedisce il dono: esso rifiuta l’esodo da sé senza ritorno, e perciò resta schiavo della morte. L’ingratitudine è l’opposto dell’accoglienza: dove essa non c’è, ildono è perduto. La cattura, infine, è l’opposto della comunione liberante: in essa l’avvenire è assente, perché il presente di chi ama è chiuso e diventa possesso al plurale, gelosia reciproca, paura di perdere l’istante raggiunto. Possessività, ingratitudine e cattura sono la malattia nella storia dell’amore, perché svuotano proprio ciò che fa il miracolo dell’amore, l’unità di vita e di morte a favore della vita. La domanda radicale diventa allora: chi ci renderà capaci di amare? Kahlil Gibran, l’autore de “Il Profeta”, ha intuito la risposta: “Quando ami non dire: ho Dio nel cuore; dì piuttosto: sono nel cuore di Dio”. Si diventa capaci di amare quando ci si scopre amati per primi, avvolti e condotti da un amore più grande verso un futuro che solo l’amore potrà costruire in noi e fra noi. Per la fede dei cristiani fare questa scoperta è credere e confessare - nella verità dei gesti della carità ricevuta e donata - il Dio che è Amore. Alla scuola della croce e resurrezione di Gesù la fede scruta, nelle profondità del mistero, l’eterna sorgività dell’Amore nella figura del Padre, la pura accoglienza in quella del Figlio, l’eterna unità dell’Amore nello Spirito, che unisce l’Uno e l’Altro nel vincolo dell’Amore eterno e insieme li apre al dono di sé, al generoso esodo della creazione e della salvezza. Scrive Agostino: “In verità, vedi la Trinità, se vedi l’amore” (De Trinitate, 8, 8, 12). “Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore” (ib., 8, 10, 14). L’annuncio di Pasqua altro non è che questa buona notizia: dove l’esistenza si apra all’avvento divino offerto nel Figlio, la gratuità diventa possibile grazie alla carità del Padre, la gratitudine fiorisce nella fede e la comunione che libera e unisce viene a realizzarsi nel cammino della speranza, impronta dello Spirito che abbraccia i tempi nell’eternità dell’amore e li apre alla perenne novità divina. Allora diventa realizzabile il comandamento “che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12). Raggiunto dall’amore eterno, l’uomo può costruire storie d’amore che siano anticipo d’eternità. Perciò la fede dei cristiani non cessa di illuminare e confortare la fatica di amare con il racconto dei giorni in cui, nella croce e resurrezione del Figlio, cielo e terra si sono incontrati, perché esodo e avvento potessero incontrarsi in sempre nuovi cammini di amore, nel tempo e per l’eternità. Sta qui il messaggio della Pasqua, cui ci conduce la settimana che inizia: quanti saremo pronti ad accoglierlo e a farne ragione di vita e di speranza per tutti?

Mons. Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti Vasto

Il Sole 24 Ore, Domenica 25 Marzo 2018