Iniziare processi più che possedere spazi
Cinque anni con Papa Francesco: tanti ne sono trascorsi dalla sua elezione a Vescovo di Roma, successore di Pietro sulla cattedra della Chiesa che “presiede nell’amore”, secondo la bella espressione usata da Sant’Ignazio di Antiochia agli inizi del secondo secolo. Un pontificato denso di eventi e di messaggi che riguardano tanto la comunità ecclesiale, com’è il caso delle due assemblee del Sinodo dei Vescovi dedicate alla famiglia e dell’Esortazione apostolica “Amoris Laetitia”, quanto la sua rilevanza sulla scena del “villaggio globale”, nei rapporti fra i popoli e nella vita di singoli Paesi, come mostra ad esempio il ruolo svolto da Papa Francesco nel processo di distensione fra Cuba e gli Stati Uniti. La novità e l’incisività di questo ministero papale non devono mettere in ombra la sua continuità col magistero dei Predecessori: per accennare solo ad alcuni tratti essenziali, si può affermare che Francesco si colleghi a Giovanni XXIII, il “Papa buono”, per l’amabilità, a Paolo VI, che a ottobre sarà da lui canonizzato, per il coraggio riformatore, a Giovanni Paolo I per il sorriso e l’immediatezza comunicativa, a Giovanni Paolo II per l’intensa esperienza mistica, nutrita di tanta preghiera, a Benedetto XVI per le grandi idee teologiche ispiratrici, nel segno di un pensiero della fede ben radicato nella storia e al servizio di essa. Francesco, però, è soprattutto il Papa che intende avviare processi, piuttosto che occupare spazi, come afferma nell’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” (24 Novembre 2013), manifesto “programmatico” (cf. n. 25) del suo pontificato: “Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici” (n. 223).
In questa tensione ad attivare processi emergono in particolare tre impulsi, che mi sembrano caratterizzare il pontificato del Papa “venuto quasi dalla fine del mondo”: l’appello alla Chiesa ad essere “in uscita”; la sottolineatura dell’assoluto primato di Dio sull’essere e sull’agire del credente e della comunità ecclesiale; il rilievo dato alla sinodalità dei vescovi e del popolo di Dio nel suo insieme. Come afferma l’“Evangelii Gaudium” la Chiesa “in uscita” è “la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. Primerear - prendere l’iniziativa: vogliate scusarmi per questo neologismo. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore, e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva” (n. 24). In alternativa all’immagine di una comunità introversa, rassegnata, autoreferenziale, quale è tentata di essere la Chiesa di fronte al diffondersi della secolarizzazione e ancor più del secolarismo ideologico, Francesco punta su una comunità di cristiani adulti nella fede, coraggiosi nello slancio della carità, audaci nel portare la buona novella a tutto l’uomo, ad ogni uomo. Una Chiesa che alza la testa non nell’atteggiamento dello scontro o dell’offensiva, ma in quello della generosità e della misericordia, frutto dell’aver conosciuto la bellezza del perdono e dell’amore di Dio e del conseguente desiderio di condividerne la gioia trasformante. Il bene è diffusivo di sé e una Chiesa che viva della tenerezza misericordiosa del suo Signore non può che irradiarla in maniera contagiosa e liberante.
Questo senso vivo della misericordia divina nasce in Francesco dalla sua esperienza dell’assoluto primato di Dio: questa è la sorgente a cui ogni cristiano attinge la forza del suo annuncio di Cristo. Nel Papa gesuita, però, essa si colora dei tratti che sono tipici della spiritualità ignaziana, radicati nella forma di vita spirituale vissuta e trasmessa dal fondatore della Compagnia di Gesù, sant’Ignazio di Loyola. Si può richiamare in proposito la tesi fondativa dell’“antropologia trascendentale” del grande teologo gesuita Karl Rahner, che tanto ha influenzato il magistero del Card. Carlo Maria Martini e ci sembra influenzi quello di Francesco: “L’uomo è l’ente che, amando liberamente, si trova di fronte al Dio di una possibile rivelazione. L’uomo è in ascolto della parola o del silenzio di Dio nella misura in cui si apre, amando liberamente, a questo messaggio della parola o del silenzio del Dio della rivelazione” (Uditori della parola, Borla, Torino 1967, 145). La creatura umana, cioè, creata libera, è chiamata ad amare nell’esercizio della sua libertà: questa vocazione radicale in tanto però può attuarsi, in quanto l’uomo si pone in ascolto accogliente della parola e del silenzio di Dio. Stare alla presenza del Signore, perseverare nell’ascolto del Dio che parla e perfino del Dio che tace, è ciò che ci rende veramente liberi e capaci di fare scelte di carità autentica e di fede sincera. Uomo dai lunghi silenzi di preghiera, nutriti di adorazione e di accoglienza obbediente della Parola divina, Francesco vive la spiritualità ignaziana e la trasmette alla Chiesa ben più di quanto comunemente quest’aspetto essenziale venga evidenziato.
Infine, è la sinodalità l’idea chiave che ispira Papa Bergoglio nel suo servizio alla Chiesa cattolica: la parola greca “sinodo” vuol dire “camminare insieme”. Buona parte di questi cinque anni di pontificato sono stati impegnati dal processo sinodale, articolato non solo nelle due assemblee di vescovi del 2014 e 2015, ma anche nella loro preparazione, che ha coinvolto ampiamente la base di tutta la comunità cattolica, e nello sviluppo che ne è seguito e ha portato all’Esortazione “Amoris Laetitia” del 19 Marzo 2016. Attraverso i questionari preparatori, le risposte ad essi pervenute da ogni parte del mondo, la riflessione dei pastori e dei teologi, il dialogo sinodale libero e spesso animato da tensioni vivaci, è arrivato al discernimento del Papa un materiale ampio, ricco di vita vissuta e di pensiero articolato, che egli a sua volta ha fatto suo con una riflessione al tempo stesso collegiale e personale, espressa nel documento citato. Non pochi hanno sottolineato l’analogia fra questa metodologia e quella che preparò e innervò i lavori del Concilio Vaticano II, la grande primaversa della Chiesa del XX secolo. Ed è certo che lo spirito del Vaticano II si riconosce fortemente in “Amoris Laetitia”, tanto nella sua aperta simpatia verso tutto ciò che è autenticamente umano, quanto nel suo atteggiamento di misericordia verso ogni situazione, comprese quelle ferite o particolarmente difficili dell’esperienza familiare e di coppia, misericordia che si traduce nell’impegno dell’accoglienza di tutti, nessuno escluso, dell’accompagnamento e del discernimento offerto a ogni persona, dell’integrazione cui ognuno ha diritto nella comunità ecclesiale. Se le critiche di un’assoluta minoranza vedono in queste scelte un cedimento della Chiesa alla seduzione del mondo, chi è vicino alla gente e vive per essa e con essa il servizio al Vangelo non può non cogliervi lo stile di Gesù, che passò fra gli uomini “beneficando e risanando tutti” (Atti 10,38), e dunque lo stile di una Chiesa da Lui mandata non a giudicare il mondo, ma a salvarlo, offrendo a tutti ragioni di vita e di speranza con la grazia del perdono e dell’amore. Una Chiesa, insomma, viva nel soffio dello Spirito, che nel Vangelo parla a chiunque vorrà ascoltarlo nel profondo del suo cuore.
Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti Vasto
Francesco, cinque anni di audacia e fede (Il Sole 24 Ore, Domenica 11 Marzo 2018, 1 e 16)