Nessuno può battere il male da solo

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In questo Natale, celebrato al termine di un altro anno segnato dalla pandemia da CoVid 19, vorrei invitare a riflettere su che cosa significhi sperare in un momento difficile come quello che stiamo vivendo. Per molti oggi la speranza si riduce al desiderio che il flagello del CoVid passi al più presto, in modo da poter riprendere una vita “normale”, senza paure e distanziamenti, senza bollettini giornalieri di contagiati e di morti. Un’affermazione di Papa Francesco mette in discussione quest’idea: «Peggio di questa crisi - ha affermato il Papa nell’omelia di Pentecoste, il 31 maggio 2020 -, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi». Il virus e le sue conseguenze sono certo un male, da cui tutti vorremmo uscire. Non imparare niente da quanto abbiamo vissuto sarebbe, però, il modo peggiore di uscirne. Mi soffermo allora su tre aspetti che l’esperienza vissuta potrebbe aiutarci a riscoprire della speranza, in particolare di quella che per la fede cristiana si è fatta visibile nel Bambino avvolto di luce nella mangiatoia del presepio.

Il primo aspetto è che la speranza non può identificarsi con la fede in un infinito progresso, di cui l’umanità sarebbe capace. Quest’idea - alla base degli atteggiamenti di consumismo ed edonismo precedenti alla pandemia - è stata smentita proprio da questo piccolo virus: ci siamo ritrovati tutti più fragili, indifesi, pieni di dubbi e di incertezze. Lo stesso rifiuto ostinato del vaccino da parte di alcuni riflette una presunzione ideologica, di cui la diffusione del CoVid ha mostrato l’inconsistenza: quella di poter fare da soli nell’affrontare l’assalto del male, al prezzo di negare la realtà dolorosamente presente sotto gli occhi di tutti. Se un grande orgoglio dominava la “ragione adulta” delle ideologie moderne, non meno orgoglioso è chi suppone di poter affrontare il pericolo con soluzioni fai-da-te. Imparare a esercitare una maggiore umiltà sarebbe un primo, prezioso guadagno. E umiltà non vuol dire solo avere un’idea chiara dei propri limiti e delle proprie fragilità, ma anche capire di aver bisogno degli altri, in particolare delle competenze e del lavoro serio e corale degli esperti. Speranza vuol dire in tal senso ascoltare chi ha conoscenze e responsabilità maggiori delle nostre e corrispondere a quanto ci viene detto con impegno e disponibilità.

Un secondo frutto della crisi prodotta dalla pandemia è che in tanti si è risvegliato il bisogno di Dio: non si tratta di cercare un Dio “tappabuchi”, che magicamente risolva quello che ci appare insolubile, ma di metterci nelle mani del Dio affidabile, del cui amore possiamo essere certi. È il Dio che Gesù ci ha rivelato e che il Suo Natale ci porta a riscoprire. Il Dio con noi non abbandonerà mai i Suoi figli: a chiunque lo invochi con fede Egli darà l’aiuto necessario a vivere con dignità e amore la propria vita e ad affrontare con speranza e fede anche la malattia e la morte, quando essa arriverà. Certo, i segni di questo ritorno all’invocazione sono stati spesso ambigui e confusi: non di meno, però, sono attestati da non pochi indicatori, a cominciare dal diffuso ricorso al web e ai canali televisivi per seguire le liturgie a distanza o dal rinnovato afflusso dei pellegrini ai santuari presenti sul territorio del nostro Paese. Speranza vuol dire in questa prospettiva fare esercizi di fede e di preghiera fiduciosa, rimettendo noi stessi e quanti portiamo in cuore, insieme all’umanità intera, nelle braccia di Dio con una confidenza infinita.

Infine, la pandemia ha accresciuto di molto le povertà: il bisogno di aiuto alimentare, l’urgenza di essere soccorsi di fronte alle gravi perdite subite, sfidano l’egoismo e la chiusura di tanti. Nessuno può salvarsi da solo: c’è bisogno di sostenersi gli uni gli altri e a tutti è richiesto il coraggio di uscire da logiche centrate solo su di sé e sui propri bisogni, per aprirsi a una più vasta solidarietà. Iniziando dalla preghiera per chi sta soffrendo, ognuno di noi può prendere qualche impegno per aiutare chi si trova in difficoltà e vive il peso della solitudine o la riduzione drammatica delle proprie possibilità di una vita sana, dignitosa e operosa. La Caritas molto sta facendo per i nuovi poveri ed è pronta a indicare a chiunque lo chieda la maniera di contribuire al bene di chi è nella prova. Speranza vuol dire oggi più che mai compiere gesti di carità attenta e concreta, mettendo a disposizione il poco o molto che abbiamo per il bene di tutti.

La pandemia, insomma, con le sfide che sta comportando, ci chiede - come ha detto Papa Francesco - di organizzare la speranza, di tradurla, cioè, «in vita concreta ogni giorno, nei rapporti umani, nell’impegno sociale e politico» (Omelia del 14 novembre 2021, Giornata Mondiale dei Poveri). Occorre non solo rinnovare in noi la certezza che Dio è il nostro vero bene, ma anche corrispondere al Suo amore con scelte e gesti eloquenti di solidarietà vissuta e di fede umile e fiduciosa. La mia preghiera e il mio augurio è che questo Natale sia per tutti un tempo fecondo per organizzare la speranza, accogliendo il Dio che viene, Signore della vita e della storia, e mostrandone sempre più con la nostra vita la bontà e la tenerezza per tutti. Lo chiedo rivolgendomi a Lui con le parole struggenti della poesia Il dolore di Giuseppe Ungaretti, voce della tragedia della guerra nella Roma ancora occupata dalle truppe naziste: «Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre, / Fratello che t’immoli / perennemente per riedificare / umanamente l’uomo, / Santo, Santo che soffri, / Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri / per liberare dalla morte i morti / e sorreggere noi infelici vivi, / d’un pianto solo mio non piango più. / Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri».

 

Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto

(Il Centro, Venerdì 24 dicembre 2021)