Il Natale è la guida verso la salvezza

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Una voce alta della poesia italiana del Novecento canta così il Natale: «Guardo il presepe scolpito, / dove sono i pastori appena giunti / alla povera stalla di Betlemme. / Anche i Re Magi nelle lunghe vesti / salutano il potente Re del mondo. / Pace nella finzione e nel silenzio … / Pace nel cuore di Cristo in eterno; / ma non v’è pace nel cuore dell’uomo. / Anche con Cristo e sono venti secoli / il fratello si scaglia sul fratello. / Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino / che morirà poi in croce fra due ladri?». Questi versi di Salvatore Quasimodo contrappongono la pace del presepe all’inquietudine degli esseri umani: dove regna il Re della pace? È fallita la Sua missione fra noi? O c’è qualcuno che ascolta ancora il pianto del Bambino, e riconosce nei morti delle guerre o nei corpi straziati dal male Colui che è morto in croce fra due ladri? Nessuna riflessione sul Natale potrà essere credibile, specialmente oggi, se non accetta di confrontarsi con queste domande. Provo a farlo da credente, che si sforza di avere un orecchio incollato alla terra, per coglierne i gemiti e le germinazioni nascoste, e un orecchio in ascolto del cielo, teso a quella Parola altra e sovrana, da cui viene illuminata la sua vita e la storia. In questo combinarsi di ascolti, tre pensieri s’impongono fra tutti.

Il primo è quello della fedeltà di Dio, nonostante tutto e anche contro tutto: il Dio del Natale, che Cristo è venuto a rivelarci e offrirci, è tutt’altro che uno spettatore freddo e inerte davanti alle sofferenze del mondo. Come si diceva nell’italiano del Trecento, si tratta di un Dio “compassionato”, che fa suo il dolore delle creature e lo soccorre con fedeltà e misericordia. Perfino di fronte alle più grandi atrocità, come quelle delle atomiche che annientarono intere comunità di essere umani alla fine della seconda guerra mondiale, la fede cristiana ha saputo testimoniare la sua fiducia nella fedeltà divina: «Il dolor contra dolorem - scriveva in tal senso il teologo giapponese Kitamori, testimone delle tragedie di Hiroshima e Nagasaki - è l’amore di Dio, l’amore che toglie il nostro dolore» (Teologia del dolore di Dio, Brescia 1975, 34). Davanti a ogni dolore, chi crede confessa la vicinanza amorosa del Padre: «Nelle profondità di Dio - scriveva Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dominum et vivificantem (1986) - c’è un paradossale mistero d’amore: in Cristo soffre un Dio rifiutato dalla propria creatura... ma, nello stesso tempo, dal profondo di questa sofferenza lo Spirito trae una nuova misura del dono fatto all’uomo e alla creazione fin dall’inizio. Nel profondo del mistero della Croce agisce l’amore» (nn. 39 e 41). È la rivelazione di questo amore che portava Agostino a riconoscere nel “Dio crocefisso” il luogo della nostra salvezza. E in Oriente Origene poteva affermare: «Neppure il Padre è impassibile! Dio piange persino per Nabucodonosor!». Il Dio fedele nell’amore non abbandonerà mai nessuno dei suoi figli!

Accanto alla convinta confessione della fedeltà divina nell’amore, il cristiano riconosce l’infinita dignità di ogni essere umano: se il Figlio eterno si è fatto uno di noi, la nostra umanità è degna dell’amore più grande, perché il nostro dolore è stato fatto proprio dal Redentore dell’uomo. Gli umili barbaramente trucidati dall’aggressione russa in Ucraina sono persone per ognuna delle quali Cristo è morto: solo una follia cieca può uccidere innocenti, bombardare scuole e ospedali, permettere esecuzioni di massa in nome di un sogno di egemonia. Chi non riconosce più la sacralità dell’altro uomo, ha scelto la via della disumanità, che lo porterà a rovinare sé stesso, come innumerevoli esempi della storia dimostrano. Dove la barbarie uccide, è notte nella vicenda umana. Scrive uno dei grandi filosofi del secolo scorso, Martin Heidegger: «Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà che diviene sempre più povero». In questa povertà tragica è più che mai necessario ricordare la sacralità di ogni vita, la vocazione all’eterno che distingue l’uomo dalla materia bruta: «Nel tempo della notte del mondo il poeta canta il Sacro» (Sentieri interrotti, Firenze 1984, 247ss.). Il Natale dà voce a questo canto, che è denuncia e annuncio, promessa e sfida per chi accolga il Figlio venuto nella carne e nella sua luce riconosca e promuova la dignità di ogni essere umano.

Infine, dalla coniugazione di questi due messaggi che la nascita del Dio Bambino porta con sé - la fedeltà divina e la dignità di ogni esistenza umana - scaturisce l’urgenza di tradurre la fede in Dio nel servizio all’uomo e l’amore che viene dall’alto nell’impegno per garantire, promuovere e difendere la vita di ogni essere umano, creato a immagine e somiglianza del Dio che è amore, e giungere alla soluzione dei conflitti attraverso una pace vera e giusta. Natale vuol dire, allora, sentirsi raggiunti da questo amore e sapere di doverlo vivere e manifestare in scelte eloquenti di prossimità verso i più deboli, di sollecitudine e di condivisione con gli altri, di prese di posizione chiare e forti a favore della pace nella giustizia e nella verità per tutti. Lungi dalla riduzione edulcorata del Natale alle emozioni che passano, l’avvento del Dio vivente fra noi chiede audacia, coraggio, passione e scelte umili e decise a favore dell’umanità di ogni uomo, per cui Cristo è morto ed è risorto alla vita. Denunciare la violenza dell’aggressore, impegnarsi nella solidarietà con l’aggredito, promuovere il dialogo per una pace giusta, pregare perché si giunga a questa pace: si fa riconoscere così oggi la via da percorrere per accogliere il Bambino che nasce per la nostra salvezza. Allora Natale sarà festa di vita piena per tutti!

 

Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto

(Il Centro, 24 dicembre 2022)