La scelta di "divenire silenzio"
Conservo molti ricordi di Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, col quale avevo avuto l’onore e la gioia di collaborare per ben dieci anni, prima della Sua elezione al Pontificato, nella Commissione Teologica Internazionale da Lui presieduta. Anche per questo quando su suggerimento di Giovanni Paolo II, che mi aveva voluto vescovo e non avrebbe potuto ordinarmi a motivo delle Sue condizioni di salute, chiesi a Lui di essere consacrante principale alla mia ordinazione, mi riempì di grande gioia la prontezza e la dolcezza con cui mi diede il Suo assenso. Così fu Lui a presiedere la celebrazione in cui fui ordinato Successore degli Apostoli nella Chiesa di Dio, suggellando un rapporto fra noi che è rimasto vivo e profondo nel tempo, fino all’ultimo Suo dono, il volume che raccoglie i Suoi commenti ai Vangeli d’ogni giorno, inviatomi nel novembre scorso con la bellissima dedica “in antica amicizia”. Fra i tanti ricordi vorrei però ora richiamarne uno che ritengo particolarmente prezioso, e cioè la lettera inviatami da Castel Gandolfo il 21 marzo 2013, con cui aveva voluto “spiegarmi” le ragioni delle Sue dimissioni. Se ora ne rendo pubblico il contenuto è perché mi sembra che essa renda ragione della profonda santità di quest’Uomo, donato da Dio alla Chiesa in tempi non facili e la cui eredità andrà sempre più raccolta ed approfondita nel popolo del Signore.
Benedetto esordiva quasi scusandosi del fatto di scrivermi in tedesco, con una delicatezza che peraltro lo aveva sempre caratterizzato: “Mi permetto di scriverLe in tedesco: questo mi risulta più veloce. Fra la valanga di lettere, che in queste settimane mi hanno colmato di un’abbondanza di luce, posso sceglierne solo poche cui rispondere personalmente. La Sua appartiene a quelle per le quali desidero espressamente e personalmente manifestare una parola di gratitudine”. Qui il Papa ormai emerito faceva riferimento a un articolo che avevo pubblicato su un grande quotidiano italiano, in cui avevo cercato di mostrare l’intima consonanza fra le decisioni esteriormente diverse di Papa Giovanni Paolo II e la Sua, sottolineando come entrambe le strade, nel loro fine ultimo, fossero espressione dello stesso atteggiamento di amore al Signore e alla Chiesa. Scriveva Benedetto: “Il beato papa Giovanni Paolo II aveva anzitutto preso sulle spalle e rinnovato con un’enorme forza interi continenti spirituali e geografici. Dopo questo periodo di dedizione nell’operare attivo, la Chiesa ebbe bisogno parimenti della grande catechesi della sua sofferenza. Solo le due cose insieme costituiscono il suo messaggio e mostrano per intero la sua statura. La mia vocazione è stata un’altra. All’inizio del mio servizio petrino ero di venti anni più anziano di quanto non lo fosse lui nel cominciare il suo. Così dovevano essere diverse anche le forme del mio servizio. Io non potevo smuovere i continenti, ma dovevo cercare di invitare nuovamente il mondo di oggi a guardarsi dentro e ad accogliere profondamente la luce della Parola di Dio. Dopo gli otto anni che ho potuto consacrare a questo servizio, non doveva di nuovo seguire un periodo dalla durata incerta in cui la Chiesa avesse nuovamente a sperimentare il mio graduale ammutolire. La corrispondenza alla catechesi della sofferenza di Papa Giovanni Paolo II si configura in me nel divenire silenzio con la rinuncia e nel sostenere con la preghiera”. Queste parole tracciavano con chiarezza le caratteristiche di quella che è stata effettivamente la missione a cui il Papa emerito è restato fedele in questi nove anni: come radice nascosta, la Sua preghiera e la Sua offerta hanno sostenuto il Suo Successore e la Chiesa tutta nel rispondere alle sfide del cambiamento d’epoca in corso e alle urgenze dell’evangelizzazione per il nostro tempo.
A queste riflessioni Papa Benedetto aggiungeva una bellissima considerazione: “Proprio questi giorni hanno mostrato com’era necessaria una voce nuova, con la quale potesse essere risvegliata in modo nuovo la gioia della chiamata a essere cristiani”. L’apprezzamento e il sostegno alla missione di Papa Francesco sono stati convinti e costanti da parte del Papa emerito, come ha più volte evidenziato lo stesso Papa venuto dall’America Latina nelle sue costanti e ripetute espressioni di gratitudine e affetto per il Predecessore. Un ultimo riferimento chiudeva la bellissima lettera indirizzatami da Benedetto XVI, ed era un grazie per il messaggio che avevo dedicato al Concilio Vaticano II in occasione del cinquantesimo dalla sua aperura e che gli avevo inviato: “Desidero anche ringraziarla di cuore per il messaggio dedicato al Concilio, che potrà molto aiutare alla retta recezione del suo insegnamento”. Peraltro, dell’insegnamento conciliare Joseph Ratzinger era stato uno degli ispiratori nel Suo ruolo di esperto e consulente dell’Arcivescovo di Colonia, il Card. Joseph Frings, e certamente del Concilio egli ha fatto la Sua bussola anche negli otto anni del Suo ministero petrino: resterà memorabile fra le tante idee da Lui offerte alla Chiesa la Sua distinzione riguardo all’interpretazione del Concilio fra l’“ermeneutica della discontinuità e della rottura”, e l’“ermeneutica della riforma”, «del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso». Di questo rinnovamento aperto al soffio dello Spirito Santo Benedetto è stato testimone e artefice: a Lui va la gratitudine di tutta la Chiesa, e quella in particolare di chiunque ne abbia conosciuto l’intelligenza vivissima, la preparazione vasta e profonda, la fede irradiante e l’umiltà, riflesso dell’umiltà divina, che risplendeva in Lui come nei grandi Padri che il Signore nei secoli ha dato alla Sua Chiesa.
Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto
L’Osservatore Romano, 5 gennaio 2023