Custodire e coltivare la vita

custodire coltivareIl termine che nella Bibbia corrisponde meglio all’idea di responsabilità è forse quello di “custodia”. Custodire vuol dire stare accanto all’altro con attenzione d’amore, rispettando e accompagnando il suo cammino, facendosene carico, coltivando la sua vita come bene assoluto.

 

 

È in questo senso che l’Antico Testamento usa il termine “custode” (“shomer” in ebraico) in riferimento al Dio della storia della salvezza: “Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele. Il Signore è il tuo custode, il Signore è la tua ombra e sta alla tua destra” (Sal 121, 4-5). Analogamente a come l’Eterno custodisce la sua creatura, questa è chiamata a “custodire” il mondo in cui dimora e l’altro uomo come proprio fratello: “Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode” (Sal 127,1). L’oggetto del custodire, cui è chiamata la responsabilità morale di ogni essere umano, è molteplice: “Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!”. Così l’ha espresso Papa Francesco nell’omelia della liturgia inaugurale del suo servizio di vescovo di Roma, allargando peraltro lo sguardo all’intera famiglia umana: “La vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene” (19 Marzo 2013). Riflettendo sul tema “Custodire e coltivare la vita. Perché essere corresponsabili?” vorrei soffermarmi allora su tre ambiti, considerando successivamente l’uomo come custode del creato, come custode dell’altro e come custode di Dio, che a sua volta lo custodisce in modo peculiare nel Suo popolo, la Chiesa dell’amore.

1. L’uomo custode del creato
Il creato è affidato all’uomo perché lo custodisca: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15). Che significato ha questa chiamata alla custodia? Creato per un atto di puro amore, conservato in essere per il costante attuarsi della donazione originaria, l’uomo e con lui l’universo intero “dimorano” nel mistero di Dio. Dio Trinità, il Dio che è amore ed eterna relazione d’amore, è il mistero del mondo, al tempo stesso e inseparabilmente l’origine, il grembo e la patria di esso. La “casa” del mondo rimanda alla “casa” trascendente, intima a ogni cosa più che ogni cosa a se stessa: la responsabilità, che la creatura libera e consapevole è chiamata ad esercitare verso ciascuna delle creature e verso l’insieme della “casa”, che è il mondo, si radica nel rapporto di tutto ciò che esiste alla sua divina “casa”, che è la Trinità trascendente, al tempo stesso rivelata e nascosta in tutto il creato. L’etica come “comportamento” rimanda all’etica come “dimora”: l’agire morale deve essere conseguente al riconoscimento dell’ambiente vitale in cui la persona opera, quello penultimo delle cose create e quello ultimo del divino mistero che crea e sostiene l’universo intero. Il fine del creato non può essere altro, allora, che quello dello stesso atto creatore: la gratuità dell’amore, la pura, diffusiva bellezza d’amare. Creato per amore, l’uomo è destinato a realizzarsi nella pienezza dell’amore: la gratuità che ne è l’origine, ne è non di meno il senso. Il Dio dell’inizio è il Dio del compimento, quando sarà tutto in tutti e l’universo sarà la Sua patria. Questo fine, per cui tutto esiste, è quanto il linguaggio della tradizione ebraico-cristiana chiama la gloria di Dio: il termine dice la potenza e lo splendore dell’Altissimo, il Suo comunicarsi gratuito e creatore alle creature, e, da parte di queste, il riconoscimento della donazione, il destinarsi accogliente a Colui, che liberamente e per amore si è destinato ad esse: “Il mondo è stato fatto per la gloria di Dio” (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae 1 q. 46 a. 2). Il comportamento della creatura libera e consapevole sarà allora eticamente responsabile e spiritualmente fecondo se tenderà a celebrare in ogni scelta la gloria del Dio vivente, ad accogliere cioè il Suo amore creatore nell’atto sempre nuovo della donazione dell’esistenza, dell’energia e della vita, e a rispondere al dono col dono, all’amore con l’amore. Nel vivere questa risposta la creatura realizzerà la verità di se stessa secondo il progetto del Creatore: Gloria Dei vivens homo, vita hominis visio Dei” (S. Ireneo, Adversus Haereses, IV, 20, 7). Quest’etica della custodia del creato, vissuta a gloria del Creatore, si esprime in tre forme fondamentali: il lavoro, il rispetto e la festa. Il lavoro porta in sé l’impronta dell’amore fontale del Padre: attraverso di esso l’uomo partecipa alla stessa azione creatrice di Dio nei confronti del creato. “L’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di  migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio. L’uomo, infatti, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così di riportare a Dio se stesso e l’universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose, in modo che, nella subordinazione di tutte le realtà all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra” (Concilio Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes, 34. Cf. anche l'Enciclica Laborem exercens di Giovanni Paolo II, 1981). Il lavoro stabilisce con la creazione una relazione di trasformazione e di finalizzazione, che non dovrebbe mai essere di strumentalizzazione e sfruttamento. Il lavoro richiede tanto il riconoscimento delle cose create nella loro autonomia propria e nella loro finalizzazione al progetto di Dio, quanto il rispetto della persona umana nella sua vocazione a essere cooperatrice dell’azione divina sul mondo. In questo senso, la mancanza di lavoro offende la dignità più profonda dell’essere umano e deve essere avvertita come stimolo all’impegno e alla responsabilità di tutti, perché ciascuno possa esprimersi in maniera appropriata alla sua vocazione nel lavoro che è chiamato a svolgere. La relazione, che coordina l’iniziativa operosa della creatura umana con la dignità di ciascuna realtà creata, è stata espressa nella tradizione cristiana in maniera significativa dalla spiritualità monastica benedettina dell’“ora et labora” (S. Benedetto, La Regola, Testo, versione e commento a cura di A. Lentini, Montecassino 1980, cap. 48, 418ss). Il lavoro scandisce la giornata del monaco come una componente necessaria della sua vocazione alla glorificazione di Dio ed entra armonicamente nel ritmo del tempo qualificato dalla lode dell’Altissimo, inserendovi la natura con i suoi cicli e le sue stagioni. L’interiorità del tempo si salda, così, all’esteriorità dello spazio in un unico processo vitale, che è al tempo stesso gloria dell’Eterno e realizzazione del creato in comunione con la persona umana e la comunità degli uomini, non nonostante, ma attraverso le trasformazioni che l’attività umana introduce nei ritmi della natura, senza per questo sconvolgerli (dove questo avvenisse, il lavoro umano contribuirebbe alla crisi ecologica, non a caso attribuita alla sfasatura tra i tempi storici” e i “tempi biologici”, fra i velocissimi tempi della tecnologia e i lentissimi tempi della biologia: cf. E. Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, Garzanti, Milano 1984). La responsabilità ecologica si esprime, poi, nella relazione di rispetto verso la dignità di ogni creatura. Questo rapporto, fatto di sobrietà e di spirito di povertà, di attenzione e di ascolto discreto, riconosce e accoglie in ogni realtà creata l’evento della donazione da parte del Creatore, che in essa si compie, il miracolo, sempre nuovo e sorprendente, dell’atto di essere. Questo rapporto può essere caratterizzato con la categoria, propria della tradizione spirituale, della reverentia. Essa può essere illustrata con le riflessioni della Contemplazione per ottenere l’amore, con cui si chiudono gli Esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola: “Il primo punto è richiamare alla memoria i benefici ricevuti di creazione, redenzione e doni particolari... Il secondo è osservare come Dio abita nelle creature: negli elementi, dando l’essere; nelle piante, facendole vegetare; negli animali, facendo sentire; negli uomini, dando l’intendere; e così in me, dandomi l’essere, la vita, i sensi e facendomi intendere... Il terzo è considerare come Dio opera e lavora per me in tutte le cose create sulla faccia della terra, si comporta, cioè, come uno che lavora: così, per esempio, nei cieli, negli elementi, nelle piante, nei frutti, negli armenti... dando l’essere, conservando, facendo vegetare, sentire... Il quarto è osservare come tutti i beni e i doni discendono dall’alto: come la mia limitata potenza dalla somma e infinita di lassù; e così la giustizia, la bontà, la pietà, la misericordia... così come dal sole scendono i raggi, dalla fonte le acque...” (S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, IV Settimana, Contemplatio ad amorem). Lo stupore e la meraviglia dinanzi all’evento sempre nuovo dell’amore, che è l’esistere della creatura, divengono spirito di azione di grazie, povertà recettiva del dono, rispetto e delicatezza verso tutto ciò che esiste. Scrive il teologo ortodosso Dumitru Staniloae: “Il santo lascia percepire, nei riguardi di ogni essere umano, un comportamento pieno di delicatezza, di trasparenza, di purezza nel pensiero e nei sentimenti. La sua delicatezza si estende anche agli animali e alle cose, perché in ogni creatura egli vede un dono dell’amore di Dio, e non vuole che questo amore sia ferito, trattando questi doni con negligenza o indifferenza. Egli rispetta ogni uomo e ogni cosa. Se un uomo soffre, o anche un animale, manifesta ad essi una compassione profonda” (D. Staniloae, La preghiera di Gesù e lo Spirito Santo, Città Nuova, Roma 1988, 23). Infine, l’etica ecologicamente responsabile anticipa nel suo rapporto con la creazione qualcosa del futuro promesso attraverso il riposo e la festa: solo l’uomo è in grado di pregustare il giorno della nuova creazione, in cui si attuerà pienamente la bellezza della presenza di Dio tutto in tutti. L’ottavo giorno, il giorno della resurrezione di Cristo, è pegno della domenica senza tramonto della definitiva creazione rinnovata. Celebrare il giorno del Signore è, allora, esigenza profonda di una spiritualità ecologica, che alla festa dell’uomo col suo Dio invita l’universo intero, nel superamento delle lacerazioni, nel rinnovamento dei rapporti fra uomini, animali e cose, in vincoli di comunione e di pace con tutte le creature. Un segno e uno strumento di queste relazioni rinnovate è il riposo: esso non è la semplice cessazione delle attività produttive, ma la rigenerazione di tutti i rapporti, il tempo in cui tutto è visto e trasfigurato nella prospettiva dello “shalom” biblico, della creazione unificata in Dio. Nulla illumina meglio il senso teologico e spirituale del riposo che la concezione ebraica del Sabato, il giorno appunto della “menuchà”, del riposo di Dio (cf. Gen 2,2 ed Es 20,11): “Lungo tutto l’arco della settimana siamo sollecitati a santificare la nostra vita impiegando le ore dello spazio. Nel giorno del  sabato ci è dato di partecipare alla santità che è nel cuore del tempo… Il riposo pulito e silenzioso del Sabato ci conduce a un regno di infinita pace, alla fonte di consapevolezza di ciò che significa l’eternità... L’eternità esprime un giorno” (A. Heschel, Il Sabato, Garzanti, Milano 1987, 163). Il Sabato è l’ultimo giorno, come la Domenica è il primo: il “settimo giorno” sta all’“ottavo” come il riposo alla festa; il compimento vissuto e gustato nell’uno si coniuga al nuovo inizio celebrato nell’altra. Esempio della capacità di relazionarsi al creato nell’armonia del riposo e della festa, è la spiritualità francescana della “custodia”: ispirata a un rapporto di pace e di bene con l’universo intero, essa è anche carica della tensione anticipatrice della creazione rinnovata. Francesco nel suo “Cantico delle creature” loda l’Altissimo “cum tucte le creature” e “per” loro, cioè inseparabilmente con esse, a ragione di esse e attraverso di loro, in un legame di comunione e di solidarietà col creato. “Custodire” il creato è al tempo stesso vivere la pace del riposo sabbatico in solidarietà con esso, e aprirsi alla festa della donazione sempre nuova del Creatore in spirito di “perfetta letizia”. Francesco unisce la spiritualità del Sabato all’esperienza gioiosa del giorno del Risorto (Regola non bollata (1221), 17,17ss.: 49. Cf. C.B. Del Zotto, Creato, in Dizionario Francescano, Padova 1983, 279-299). Benedetto, Ignazio, Francesco offrono, dunque, tre modelli eloquenti delle attitudini fondamentali proprie di un’etica e di una spiritualità ecologiche, che, radicate nella fede trinitaria, fanno dell’uomo il custode del creato secondo il disegno di Dio: lavoro e riverente accoglienza, riposo nella pace del compimento e festa nella gioia del nuovo inizio accomunano l’uomo e il creato in uno stesso rapporto di amore, che partecipa dell’amore creativo dei Tre, e celebra, nella responsabilità verso la grande “casa” del mondo, la gloria della Trinità, “dimora” trascendente e santa di tutto ciò che esiste. Che cosa questo comporta per il cammino formativo proprio dell’Azione Cattolica? La scelta pedagogica dell’Associazione dovrà proporsi sempre più di educare all’atteggiamento della “custodia” del creato, radicato in un’etica e in una spiritualità ecologiche fondate nella fede trinitaria. La sensibilità alla dignità del lavoro, alla relazione di rispetto verso la grande “casa” del mondo e alla celebrazione feconda della festa, nel riposo rigenerante specialmente dell’ottavo giorno, dovranno essere attenzioni costanti, presenti in tutte le fasi della vita di chi aderisce all’Azione Cattolica e al suo progetto formativo.

2. L’uomo custode dell’altro
Custode del creato, l’uomo è anche custode dell’altro, fratello in umanità davanti all’unico Padre celeste. Alle origini della famiglia umana, Caino dimostra di essere consapevole di questa responsabilità, sebbene l’abbia negata nei fatti, quando alla domanda del Signore “Dov’è Abele, tuo fratello?” risponde: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9). In realtà, l’essere creati dall’unico Dio e Signore ci rende originariamente uniti in un vincolo di fraternità, che ci chiama ad essere “custodi” l’uno dell’altro: “il volto d’altri” che ci guarda è testimone che il nostro “io” non è tutto e deve anzi necessariamente misurarsi con l’altrui bisogno, con l’esigenza che ognuno porta in sé di amare e di essere amato, vivendo l’esodo da sé verso gli altri, e spezzando così l’incanto di ogni totalità presuntuosamente chiusa in se stessa. Scrive Emmanuel Lévinas: “Si può risalire a partire dall’esperienza della totalità ad una situazione nella quale la totalità si spezza, mentre questa situazione condiziona la totalità stessa. Questa situazione è lo sfolgorio dell’esteriorità o della trascendenza sul volto d’altri” (E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980, 23). Il riconoscimento della responsabilità verso l’altro, sollecitato dal suo volto che ci guarda, sta a fondamento della stessa possibilità dell’etica (Su quanto segue rinvio per uno sviluppo articolato e documentato al mio libro L’uno per l’Altro. Per un’etica della trascendenza, Morcelliana, Brescia 2003): se si intende motivare l’esigenza di fare il bene e di evitare il male, occorre ancorarla al di fuori dell’arbitrio dispotico del soggetto, in un’esigitività ultima e trascendente, di cui il bene è lo splendore irradiante, l’esigenza amabile, il dono perfetto. Viceversa, il male è la resistenza opposta a questo richiamo, l’appassionato permanere nella negazione, la lotta vissuta in nome di una causa falsa, quella della propria libertà eretta come assoluto contro l’Assoluto. Dall’ethos, classico, alla morale delle Dieci Parole, legate al Grande Codice dell’alleanza, dal discorso della montagna alle esigenze di giustizia del diritto romano, è quest’impianto di una morale fondata nella Trascendenza - e dunque sull’esigitività legata all’altro su cui misurarci, tanto prossimo e immediato, che ultimo e trascendente -, che ha retto le sorti della vita personale e collettiva dell’Occidente. È con l’emergere moderno dell’attenzione centrale alla soggettività che cambiano i termini del problema morale: dall’eteronomia - in cui si riconosce la fondazione oggettiva ed assoluta della morale - si passa all’autonomia, a una morale che si vuole “emancipata”, dove il coraggio di esistere autonomamente si estende dal conoscitivo “sapere aude!” - “osa sapere!” al decisionistico “libere age!” - “agisci secondo il codice di un’assoluta libertà!”. L’autonomia appare come la sfida su cui misurare qualsivoglia imperativo morale, per verificare se esso renda più o meno liberi, più o meno umani. Farsi norma a se stessi, essere soggetto e non oggetto del proprio destino, appare il progetto da perseguire. L’ebbrezza di questo sogno prende gli spiriti più diversi, in forme borghesi o rivoluzionarie, di progresso o di conservazione. Ben presto, tuttavia, la coscienza dell’impossibilità di un’etica tutta soggettiva s’impone: che bene sarebbe il bene che fosse tale solo per me? E in nome di quale criterio valido per tutti sarebbe da evitare il male? Non è il confine fra la mia libertà e l’altrui anche il limite di ogni autonomia? E perché se una scelta mi risultasse più vantaggiosa - in termini morali o economici o politici - dovrei seguire un criterio diverso dal semplice profitto e agire in maniera differente? Se poi un comportamento scorretto è diffuso - giustificato caso mai dal motivo che “tutti lo fanno!” - in nome di quale valore morale dovrei evitarlo, se la scelta è lasciata all’arbitrio personale? È a partire dal crogiuolo di queste domande che si profila l’urgenza di affrontare il tema della fondazione dell’etica, in un’epoca in cui il passaggio dal fenomeno al fondamento appare tanto necessario, quanto spesso evaso. Come passare da una filosofia dell’io a una filosofia del Tu, dove sia l’Altro a essere misura della responsabilità morale e gli altri a costituire la rete concreta di essa? Occorre mettersi in ascolto dell’Altro, aprirsi all’avvento del Tu. Questo Tu altro e sovrano la fede lo riconosce nel Dio vivente in tutta la sua alterità, libero di una libertà irriducibile a ogni cattura, sorgente di un’etica del dono in cui il Suo destinarsi a noi suscita il nostro destinarci a Lui e agli altri nella libertà. In questo esistere l’uno-per-l’altro regola suprema è l’amore: oltre il tramonto delle pretese assolute di una certa modernità e l’incompiutezza del nichilismo della postmodernità, ritorna in tutta la sua forza la parola antica e nuova del Vangelo: “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 13,34). L’essere l’uno-per-l’altro è retto da quel “come”. L’etica della trascendenza lascia trasparire la trascendente sorgente del Dono. Si profilano così quattro tesi per un’etica caratterizzata dalla custodia dell’altro. La prima tesi può essere formulata così: non c’è etica senza trascendenza. Non può esserci agire morale, lì dove non ci sia l’altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. La fondazione dell’etica è inseparabile da questo riconoscimento: chi afferma se stesso al punto da negare ogni altro su cui misurarsi, nell’atto stesso di quest’affermazione idolatrica, nega se stesso come soggetto morale, nega anzi la possibilità stessa di una scelta etica fra bene e male, perché annega ogni differenza nell’oceano asfissiante della propria identità. In questo senso, nessun uomo è un’isola: e chi pensasse o volesse essere tale, nel pensarsi o volersi così annullerebbe se stesso come soggetto di relazione, e perciò di vita e di storia reale. Fare dell’altro lo “straniero morale” è farsi stranieri alla verità di se stessi, è rinnegare la più profonda dignità del proprio essere personale e del proprio destino. Non c’è responsabilità e vita morale senza un movimento di esodo da sé per andare verso l’altro, soprattutto se debole, indifeso e senza voce.  La seconda tesi di un’etica della custodia dell’altro suona così: non c’è etica senza gratuità e responsabilità. Il movimento di trascendenza, costitutivo della responsabilità, ha un carattere gratuito e potenzialmente infinito: uscire da sé in vista di un ritorno, calcolare con l’altro al fine di un proprio interesse è svuotare di ogni valore la scelta morale, facendone un commercio o uno scambio tra pari. La lezione di Kant conserva tutta la sua verità: l’imperativo morale o è categorico, e dunque incondizionato, o non è. Il destinarsi ad altri è un atto gratuito e senza condizioni, da null’altro motivato che dall’esigenza e dall’indigenza dell’altro, o non è autotrascendenza, ma riflesso, proiezione di sé fuori di sé in vista dell’egoistico ritorno a sé. In questo carattere gratuito e potenzialmente infinito della trascendenza etica si coglie come l’anima più profonda di essa sia l’amore, il dare senza calcolo e senza misura per la sola forza irradiante del dono. L’etica della trascendenza è null’altro che l’etica dell’amore responsabile, la morale della carità vissuta con consapevolezza e libertà. Il bene è ragione a se stesso! La terza tesi può formularsi in questi termini: non c’è etica senza solidarietà e giustizia. In questo stesso movimento di trascendenza si scopre la rete degli altri che circonda l’io come sorgente di un insieme di esigenze etiche: contemperarle in modo che il dono compiuto all’uno non sia ferita o chiusura ad altri è coniugare la morale con la giustizia, che è la forma della trascendenza etica vissuta nella comunità dei volti che si guardano. Regolare in forma collettiva questa rete di esigenze di giustizia è misurarsi sul bisogno del diritto: non l’astratta oggettività della norma, né il dispotismo del sovrano fonda l’autorità della legge, ma l’urgenza di contemperare le relazioni etiche perché nessuna sia a vantaggio esclusivo di alcuni e a scapito della dignità di altri. Il bene comune è misura e norma dell’agire individuale, specialmente nel campo dei doveri civili. Infine, la quarta tesi di un’etica della custodia dell’altro uomo suona così: l’etica rimanda alla Trascendenza libera e sovrana, ultima e assoluta. Quando si riconosce che il movimento di trascendenza verso l’altro e la rete d’altri in cui siamo posti presentano un carattere di esigenza infinita, sull’orizzonte dell’etica si profila l’altra trascendenza, ultima e sovrana, di cui quella prossima e penultima è traccia e rinvio. Nel volto d’altri è l’imperativo categorico dell’amore assoluto che mi raggiunge, e nell’assolutezza dell’urgenza della solidarietà con il più debole è un amore infinitamente indigente che mi chiama. Questa trascendenza assoluta, questo assoluto bisogno d’amore sono la soglia che salda l’etica filosofica all’etica teologica: qui l’esigenza dell’essere l’uno-per-l’altro rimanda a una più profonda e sorgiva relazione dei Tre che sono Uno, nel loro reciproco darsi ed accogliersi. Qui l’etica della responsabilità e l’etica della solidarietà appellano all’etica del dono, alla morale della Grazia. Qui l’amore - sovrana esigenza morale - rimanda all’Amore come eterno evento interpersonale dell’unico Dio in tre Persone. Qui, nelle forme dell’essere l’uno-per-l’altro è il possibile-impossibile amore, gratuitamente donato dall’alto, che viene a narrarsi nel tempo: la carità, che “non avrà mai fine” (1 Cor 13,8). Su di essa si misurerà la verità profonda delle nostre scelte: alla sera della vita saremo giudicati sull’amore! Che cosa dice tutto questo all’Azione Cattolica? L’essere l’uno-per-l’altro è in realtà alla base dell’impegno associativo, la condizione con la quale sta o cade la stessa vita dell’Associazione. Questo dovere morale di custodia dell’altro, che ciascun membro dell’Azione Cattolica prende, non riguarda solo l’altro cui si è legati dal comune impegno associativo, ma ogni essere umano, la cui dignità va rispettata e promossa. Il protagonismo laicale proprio dell’Azione Cattolica vuol dire anche questo: ciascuno viva la propria dignità personale e riconosca l’altrui, assumendosi la responsabilità comune e quella per l’altro, specialmente se debole, indifeso e senza voce. Anche per questa ragione, nella sua storia, l’Associazione ha saputo esprimere straordinarie figure al servizio della carità politica e dell’impegno storico per il bene comune, educate dall’esercizio della corresponsabilità vissuto nell’esperienza associativa.

3. L’uomo, custode di Dio, custodito da Lui nella Chiesa dell’amore
La Chiesa che Gesù è venuto a fondare sulla terra è la comunità dei figli resi tali nel Figlio: come tale è una fraternità, la “fraternità cristiana” (Cf. J. Ratzinger, La fraternità cristiana, Queriniana, Brescia 2005). Proprio così, essa è l’icona viva della comunione trinitaria, in cui ciascuno è “custode” dell’altro nel reciproco accogliersi e donarsi. Lo rivela una parola usata nel Nuovo Testamento, soprattutto in Giovanni, “kathòs”, che vuol dire “come”: “La formula più corrente mediante la quale Giovanni dà espressione alla realtà escatologica della Chiesa è la semplice congiunzione ‘come’ (kathòs). Essa non soltanto stabilisce un legame di somiglianza fra Cristo e i suoi discepoli, ma indica anche che ciò che è in Dio deve essere pure in coloro che gli appartengono... I testi in kathòs, che affermano una corrispondenza ontologica fra le persone divine e la comunità cristiana, sfociano precisamente in un comando: ‘Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi’ (Gv 15,12; cf. 13,34); ovvero: ‘Che essi siano uno, come noi siamo uno’ (Gv 17,21.22)” (P. Le Fort, Les structures de l'Église militante selon Saint Jean, Genève 1970, 172). In queste parole di Gesù si coglie il triplice senso della parola “kathòs” riguardo al rapporto fra la Trinità e la Chiesa: la Chiesa viene dalla Trinità, dall’amore che lega il Padre e il Figlio nello Spirito Santo, è immagine della Trinità etende verso la Trinità. Come tale, la Chiesa è la Chiesa dell’amore: tutto in essa Chiesa viene dall’amore trinitario ed è chiamato ad essere immagine di esso. L’agape è l’anima della Chiesa, il distintivo di quanti credono nella rivelazione dell’amore del Padre compiutasi in Cristo. “Allélon - allélous” - “gli uni gli altri” è la formula che nel Vangelo di Giovanni corrisponde orizzontalmente al “kathòs”: se il “come” dice il rapporto tra noi e la Trinità, “allélon - allélous” dice il rapporto della reciprocità fra di noi. È insomma la carità di Dio a fondare la carità fraterna: e questa è la partecipazione alla vita divina nel tempo. L’amore di Dio precede l’amore dell’uomo: la Chiesa non è frutto di “carne e di sangue”, non è un fiore spuntato dalla terra, ma è dono dall’alto, frutto dell’iniziativa libera e gratuita della carità divina. Come il suo Signore, la Chiesa viene “dall’alto”: la sua origine non è quaggiù, in una convergenza di interessi umani o nello slancio di qualche cuore generoso, ma presso Dio, da dove è venuto il Figlio nella carne, per vivificare questa carne nel dono della vita trinitaria. Con la storia di Pasqua, lo Spirito è entrato in modo pieno e definitivo nella vicenda umana: Dio ha avuto “tempo per l’uomo” e i giorni dell’uomo sono diventati, a partire dall’alba della resurrezione, il tempo penultimo, il “frattempo”, che sta fra la prima venuta del Figlio dell’uomo e il suo ritorno nella gloria, tempo dello Spirito che instancabilmente opera nella vicenda umana. Dalla missione del Figlio e dello Spirito è nata la Chiesa, partecipazione della vita trinitaria nel tempo degli uomini:De unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata” - “Popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (S. Cipriano, De Oratione Dominica 23)!  Tre conseguenze possono trarsi da questo richiamo dell’origine “dall’alto” per l’idea che possiamo farci della comunione ecclesiale. In primo luogo, il richiamo dell’origine trinitaria ci fa capire che la Chiesa è dono e grazia: la Chiesa non si inventa né si produce, si riceve. La fraternità cristiana non è frutto della fatica dell’uomo, ma l’offerta gratuita di una grazia, che non è né meritata né prevedibile. La Chiesa nasce dall’invocazione, dall’accoglienza e dal rendimento di grazie: ne risulta l’esigenza di uno stile di vita contemplativo ed eucaristico. La preghiera incessante è l’anima di ogni vera fraternità cristiana! In secondo luogo, la Chiesa si offre come mistero: in quanto è opera di Dio e non dell’uomo, essa è, nella sua natura più profonda, inaccessibile a uno sguardo puramente umano e tale da non lasciarsi catturare dalle coordinate di questo mondo. Come dono divino e comunione fraterna vivificata dallo Spirito, la Chiesa va riconosciuta con gli occhi della fede: la gloria nascosta e rivelata nella storia si lascia discernere da chi sa leggerne i segni con intelligenza d’amore. Perciò la Chiesa è oggetto di fede - “credo Ecclesiam”, come recita il Simbolo della fede - e il discernimento dei segni dei tempi, operato sotto l’azione dello Spirito, sarà sempre necessario alla vita e alle scelte del popolo di Dio nel tempo. Infine, il richiamo dell’origine porta a pensare e vivere la Chiesa nel suo aspetto di comunità impegnata nella storia: come il Verbo si è fatto carne, entrando fino in fondo nelle contraddizioni dell’esistenza umana e nella morte, così la Chiesa dell’amore dovrà farsi presente fino in fondo a tutte le situazioni umane, per contagiare in esse la forza e la pace del Redentore dell’uomo. L’indole contemplativa dell’essere e dell’agire ecclesiale non significa in alcun modo fuga dal mondo o paura di impegnarsi in esso: se il Dio della Chiesa si è fatto totalmente dentro alla vicenda umana, la Chiesa di Dio non potrà restare spettatrice della storia, chiamandosi fuori dalle sofferenze e dalle speranze degli uomini. La gloria di Dio si celebra lì dove è promossa la vita dell’uomo: non c’è situazione umana, specialmente di dolore e di miseria, dalla quale la Chiesa possa sentirsi estranea: il suo compito è di rendersi presente in una solidarietà, che non sia né forzatura né supplenza. La Chiesa sarà, allora, dalla parte dei poveri, perché solidale ad essi nell’unione a Colui, che si è fatto solidale con loro: una Chiesa del primato della carità, voce dei deboli, debole e povera essa stessa, fiduciosa nell’unica forza su cui le è dato di contare, quella del suo Signore crocifisso e risorto. Una Chiesa in cammino con gli uomini, capace di portarne a Dio le lacrime e la protesta e insieme capace di annunciare loro l’altra dimensione, l’orizzonte del Regno che viene, contestazione e sovversione della miopia dei calcoli e delle presunzioni di questo mondo. Nata dall’alto grazie alle missioni del Figlio e dello Spirito, la Chiesa è “icona” della Trinità, strutturata a immagine della vita trinitaria. Analogamente a come nella Trinità le Persone divine si in-abitano reciprocamente l’una nell’altra, pur senza perdere la loro distinzione - secondo quello “scambio vitale” che viene chiamato dai Padri greci “pericóresi” -, nella Chiesa la molteplicità delle persone e delle Chiese locali partecipa dell’unità della vita secondo lo Spirito, che fa di essa l’unico Corpo di Cristo, pur senza perdere la distinzione dei doni e dei servizi nella varietà delle realizzazioni storiche particolari, secondo una vera e propria “pericóresi” ecclesiale (o “inabitarsi reciproco” delle persone e delle Chiese locali). In questa luce si comprende perché sin dalle più antiche professioni di fede la Chiesa - “icona della Trinità” - sia chiamata “communio sanctorum”. L’espressione ha vari livelli di significato: raggiunti e trasformati dall’unico Spirito (“communio Sancti”), attraverso la partecipazione ai beni della salvezza (“communio sanctorum” nel senso del genitivo plurale neutro), i battezzati esprimono nella loro vita e nelle relazioni reciproche la meravigliosa varietà dei suoi doni, orientati all’utilità comune (“communio sanctorum” nel senso del genitivo plurale personale). La Chiesa, vivificata dallo Spirito, è comunione dei santi nella varietà dei carismi e dei ministeri suscitata dallo Spirito e nella loro convergenza in vista della crescita comune. Perché questa comunione sia effettivamente vissuta, è necessario che siano detti con la vita tre “no” e tre “sì”. Il primo “no” è al disimpegno, cui nessuno ha diritto, perché ognuno è per la sua parte dotato di carismi da vivere nel servizio e nella comunione: ad esso deve corrispondere il “sì” alla corresponsabilità, per cui ognuno si faccia carico per la propria parte del bene comune da realizzare secondo il disegno di Dio. Il secondo “no” è alla divisione, che parimenti nessuno può sentirsi autorizzato a produrre, perché i carismi vengono dall’unico Signore e sono orientati alla costruzione dell’unico Corpo, che è la Chiesa (cf. 1 Cor 12,4-7): il “sì” che ad esso corrisponde è quello al dialogo fraterno, rispettoso della diversità e volto alla costante ricerca della volontà del Signore. Il terzo “no” è alla stasi e alla nostalgia del passato, cui nessuno può acconsentire, perché lo Spirito è sempre vivo e operante nello svolgersi dei tempi: ad esso deve corrispondere il “sì” alla continua, necessaria purificazione e riforma, per la quale ognuno possa corrispondere sempre più fedelmente alla chiamata di Dio, e la Chiesa tutta possa celebrarne pienamente la gloria. Attraverso questo triplice “no” e questo triplice “sì”, in maniera dunque dinamica e mai del tutto compiuta, la Chiesa si presenta come icona viva della Trinità, partecipazione nel tempo alla “pericóresi” della vita divina, impegnata ad annunciare tutto il Vangelo a tutto l’uomo, a ogni uomo. Come viene dalla Trinità ed è strutturata a immagine della comunione trinitaria, così la Chiesa va verso la Trinità nel cammino del tempo, pellegrina verso la “patria” (come la descrive il capitolo VII della Lumen Gentium dedicato appunto all’indole escatologica della Chiesa pellegrinante). Nello Spirito, per Cristo essa va verso il Padre: nella tensione verso questa meta, la Chiesa si riconosce inviata ad estendere la potenza della riconciliazione pasquale di Cristo a tutte le situazioni della storia fino a che egli torni, protesa continuamente verso la gloria del Signore del cielo e della terra, che è anche la piena realizzazione della creatura. Il futuro promesso è la qualità dell’essere e dell’agire ecclesiale, la dimensione che tutto raggiunge e vivifica, il richiamo della fine, che dà il vero senso e valore di ogni passo dell’incessante cammino. Tre conseguenze ne derivano per l’esistenza della Chiesa. In primo luogo, il richiamo della fine insegna alla Chiesa a relativizzarsi: essa scopre di non essere un assoluto, ma uno strumento, non un fine, ma un mezzo, non “domina”, ma povera e serva, “semper reformanda”, chiamata a continua purificazione e a incessante rinnovamento, inappagata e inappagabile da qualsiasi traguardo umano. Il richiamo della fine insegna, poi, alla Chiesa a relativizzare le grandezze di questo mondo: tutto è per lei sottoposto al giudizio della Croce e della Resurrezione del Suo Signore. In nome della sua meta più grande, essa dovrà essere sovversiva e critica verso tutte le miopi realizzazioni di questo mondo: presente a ogni situazione umana, solidale con il povero e con l’oppresso, non le sarà lecito identificare la sua speranza con una delle speranze della storia. Beninteso, questo non potrà significare disimpegno o critica a buon mercato: la vigilanza che è chiesta alla Chiesa è ben più costosa ed esigente. In nome della sua “riserva escatologica”, che è la speranza fondata nel Risorto, la Chiesa non può identificarsi con alcuna ideologia, con alcuna forza partitica, con alcun sistema, ma di tutti deve saper essere coscienza critica alla luce del Vangelo del regno. Infine, il richiamo della fine riempie la Chiesa di gioia: essa esulta già nella speranza, perché sa di essere l’anticipazione militante di quanto è stato promesso nella Resurrezione del Crocifisso, proprio nel segno del suo essere fraternità redenta. La sua gioia non nasce dalla presunzione di edificare con le sue forze una scala verso il cielo, una specie di nuova torre di Babele di un mondo prigioniero di se stesso. La sua pace e la sua forza stanno nella certezza che lo Spirito del Signore è all’opera nel tempo degli uomini e che la comunione fraterna e responsabile dei suoi figli è già nella storia un seme di eternità. Alla Chiesa non mancherà l’ora della prova: ma essa sa che dietro le nuvole resta vivo il sole dorato di Cristo vincitore del male e della morte. Il Risorto è vivo e operante. È Lui che ha vinto il mondo: è Lui la fonte, inesauribile della gioia della Chiesa. Verso di Lui essa sospira: “Vieni!”. A lei egli risponde: “Sì, vengo presto” (Ap 22,17.20). Se ci chiediamo che cosa questo possa significare per la vita dell’Azione Cattolica, potremmo rispondere che nella Chiesa e per la Chiesa essa è chiamata ad essere singolare casa e scuola di comunione. Collaborando con il ministero gerarchico, i laici dell’Associazione devono pronunciare con la parola e con la vita il triplice “no” - al disimpegno, alla divisione, alla nostalgia del passato -, e il triplice “sì” - alla corresponsabilità, al dialogo nella comunione e nell’obbedienza necessaria e alla perenne riforma secondo il Vangelo di Gesù. Proprio così l’Azione Cattolica potrà presentarsi per quello che per vocazione è: un’associazione di cristiani adulti e responsabili, che vivono la passione per l’unità del Corpo di Cristo e si sforzano di tirare nel presente degli uomini qualcosa della futura bellezza di Dio, promessa nella resurrezione di Cristo. Un segno e una testimonianza di speranza, di cui ha più che mai urgenza questa nostra epoca cosiddetta post-moderna, orfana di certezze ideologiche e bisognosa di orizzonti comuni di senso, non ideologici e violenti, ma umili e liberanti, rischiarati e nutriti sempre di nuovo dal primato della carità che viene da Dio e rende partecipi della vita divina.

Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto

Custodire e coltivare la vita. Perché essere corresponsabili?
(Convegno Nazionale delle Presidenze Diocesane dell’Azione Cattolica Italiana, Roma, 26 Aprile 2013)