Quale Europa vogliamo ?
A emergere dalle elezioni nell’Unione europea è soprattutto la disunione fra i Paesi dell’Europa: se in Germania, capofila delle politiche di rigore ed unica ad aver beneficiato di esse, le forze europeiste tengono, pur arretrando di qualche misura, in Francia un autentico terremoto politico porta il Front National anti-europeista ad essere il primo partito, capace di coagulare un quarto dell’elettorato andato alle urne, nel Regno Unito l’Ukip umilia conservatori e laburisti in nome del no all’Unione, mentre i partiti ostili all’Europa avanzano ovunque, dall’Austria alla Danimarca. Percentuali rilevanti vanno a quanti sostengono il ritorno alle monete e alle sovranità nazionali del passato. La bassa affluenza segnala una disaffezione diffusa alla causa europea, che porta al voto appena un terzo degli elettori a Londra e meno della metà a Parigi, mentre in Italia i votanti si assestano intorno al 58%. L’indicazione che ne risulta è che l’Europa non ha saputo dare risposte adeguate alla crisi che l’ha investita, mostrando tutta la sua fragilità all’interno del “villaggio globale”. Ne sono responsabili i partiti tradizionali, le forme di governo dell’Unione e quanti erano stati scelti a rappresentare e governare i cittadini del Vecchio Continente. La crisi ha certamente radici economiche, ma non si riduce solo a questioni che toccano l’economia. Il disagio è più ampio e profondo, tanto da poter affermare che è il “sistema Europa” a venir messo in discussione, con le sue istituzioni, le sue “élites” e i suoi processi di rappresentanza e di decisione politica. «Il popolo è stanco di dover obbedire a leggi che non ha votato e di sottomettersi a commissari che non hanno ricevuto la legittimità del suffragio universale»: queste parole di Marine Le Pen, voce dell’estrema destra trionfatrice nel voto francese, riassumono la denuncia che è alla base della crisi, radicata nella percezione di una lontananza e di un’estraneità profonda della politica europea dal vissuto della gente, dalle priorità reali e dalle motivazioni più profonde che avevano in passato attratto i cittadini europei verso il sogno di una “casa comune”.
La crisi è, insomma, morale e spirituale, prima ancora che economica e politica. È come se l’Europa avesse perso la sua anima, quella che ne ha fatto la culla di straordinarie conquiste sociali e la portavoce di principi fondamentali, cui si sono ispirate le battaglie civili di interi popoli e continenti. Uno dei compiti dei nostri governanti, nell’accingersi al semestre di presidenza italiana dell’Unione, dovrà essere allora quello di riproporre quest’anima a partire dalle sue motivazioni più profonde e autorevoli. Al centro dell’ispirazione dei Padri fondatori dell’Europa unita, non a caso uomini di profonda fede religiosa ed insieme di elevato senso della necessaria laicità dell’azione politica, quali furono Adenauer, De Gasperi e Schuman, c’era un’idea chiave, maturata nell’alveo della tradizione cristiana: quella dell’essere umano come persona, soggetto consapevole e libero delle proprie scelte, costruttore della propria storia, dotato di una dignità unica, da riconoscere e rispettare da parte degli Stati, delle comunità civili e religiose e dei singoli. L’irripetibile unicità dell’essere personale è il dato acquisito nel corso dei grandi dibattiti cristologici dei primi secoli di diffusione del messaggio evangelico, in particolare in quella straordinaria fermentazione di idee che portò la cristianità dalle definizioni conciliari di Nicea (325) a quelle di Calcedonia (451). Se il Figlio eterno si è fatto uno di noi, rendendosi protagonista di una storia che s’intreccia a quelle di ogni essere umano in una possibile alleanza di amore, scelta e vissuta nella libertà, ogni soggetto di storia è potenziale “partner” del divino, chiamato a esercitare la propria responsabilità di fronte a Dio e agli uomini. Questa singolarità, libera e consapevole, fonda l’esigenza di reti relazionali in cui ogni persona possa essere riconosciuta ed esprimersi nella sua dignità, ponendosi così alla base di quel principio solidarietà, che è a sua volta decisivo per la realizzazione di una democrazia matura, capace di tutelare e promuovere i diritti soprattutto dei più deboli. Questi due volti dell’idea di persona - la dignità assoluta del singolo e la solidarietà necessaria, l’“esse in” e l’“esse ad”, per esprimerci con il linguaggio del pensiero classico e medioevale - sono anche le forze portanti della civiltà europea, esportate nel nuovo mondo a partire dalla scoperta dell’America, e proposte all’umanità intera come fermento culturale. Su questi principi si fonda la passione per la causa della casa comune propria dei grandi protagonisti della costruzione dell’Unione. Quando questi principi vengono messi in ombra - come avviene nell’emergere degli egoismi nazionali di fronte alla crisi - o in discussione - come accade nelle questioni riguardanti la vita umana, la cui sacralità in ogni fase ed espressione è minata da proposte legislative o interventi ispirati a principi cosiddetti liberistici - allora è l’idea stessa d’Europa a entrare in crisi. Il patrimonio di valori personalistici - assunto ad esempio nel dettato della costituzione dell’Italia repubblicana e alla base dei sogni e dei progetti europeistici dei Padri fondatori - non è un ornamento di cui ci possa disfare senza conseguenze decisive: al contrario, si tratta di un patrimonio ideale, che plasma i frutti più alti della civiltà europea e che è ancora in grado di ispirare processi di crescita democratica, civile e spirituale di alto profilo. Il futuro dell’Europa sta tutto in queste sue radici, quella legata alla grande civiltà greco-romana, in particolare al “corpus” del diritto di Roma, e quella fondata nella matrice ebraico- cristiana, con l’apporto preponderante su ogni altro dell’idea della dignità dell’essere personale e della sua vocazione solidaristica.
L’oblio di queste sorgenti porterà inevitabilmente allo smarrimento delle motivazioni che possono fare di popoli dalle storie e dalle culture pur così varie una grande casa comune. La riproposizione convinta di esse è la sfida su cui dovranno confrontarsi i costruttori della nuova Europa. All’accoglienza feconda di questa sfida i credenti in Cristo non potranno non contribuire e lo faranno tanto più - come sosteneva il grande pensatore gesuita tedesco Erich Przywara nella sua breve e densa opera su L'idea d'Europa - quanto più sapranno “uscire dalla propria terra e dalla propria parentela, sempre di nuovo” (122) per andare in cerca del povero e del diverso a invitarlo alla propria mensa come amico. L’Europa dei popoli sarà la casa comune di tutti se saprà essere la comunità delle persone, rispettate e promosse nell’infinita dignità di ciascuna, in ogni fase della sua esistenza, in ogni espressione della sua creatività, umana e religiosa.
Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto