L'altro accanto a noi
Mosè, il “salvato dalle acque”, è colui che condurrà il popolo eletto nel cammino della liberazione dalla schiavitù d’Egitto verso la Terra della promessa di Dio, passando attraverso le acque del Mar Rosso, prodigiosamente apertesi davanti a lui. La prima e più profonda liberazione, però, è quella che Mosè ha vissuto in se stesso, passando da una stagione della vita in cui l’altro era da lui semplicemente ignorato o considerato come oggetto su cui esercitare il proprio dominio, a un cammino nel quale l’altro è diventato il riferimento sempre più totalizzante della sua esistenza: sia l’Altro divino, che l’altro umano. Proprio così la vita di Mosè racchiude un messaggio significativo per chiunque voglia vivere la vita nella sua vocazione profonda di “esistenza”, di esodo da sé (“ex- sistere”) per servire gli altri: la testimonianza biblica non esita perciò a presentarlo come l’amico di Dio, quello con cui l’Eterno parla “faccia a faccia” (Es 33,11; Dt 34,10; Nm 12,8), e a vedere in lui la figura del Messia atteso, un modello a cui guardare e dare ascolto (cf. Dt 18,15). Il Nuovo Testamento lo cita ben 80 volte! Conoscere Mosè vuol dire allora conoscere la verità dell’uomo davanti a Dio e la verità di Dio che si è destinato all’uomo in Gesù Cristo: la vita di Mosè, il salvato dalle acque, è figura della vita di quanti nell’acqua del battesimo hanno ricevuto la libertà dal peccato e la vita nuova della grazia divina, per vivere l’esodo da sé senza ritorno dell’amore vero e imparare così a esistere con e per gli altri.
È riflettendo su questa ricchezza che Gregorio di Nissa scrive una stupenda Vita di Mosè, dove il “salvato dalle acque” è presentato come esempio eccellente del cammino che tutti dovremmo percorrere per piacere a Dio, vivendo la nostra esistenza di battezzati - come Mosè salvati dalle acque! - come un cammino pasquale, una sorta di continuo esodo dalla schiavitù del nostro Egitto alla libertà della terra promessa da Dio. Mosè - secondo Gregorio - è Colui che ha conosciuto sul monte santo la “tenebra luminosa” dell’esperienza mistica del divino (II, 163), perché è stato “l’ardente innamorato della bellezza” (II, 231), che non ha mai cessato di avanzare verso la visione di Dio: “Vedere Dio significa non saziarsi mai di desiderarlo... né il progredire del desiderio del bene è impedito da alcuna sazietà” (II, 239). Proprio in questa continua crescita Mosè è stato “modello di bellezza”, che ci insegna a testimoniare come lui ha fatto “l’impronta della bellezza che ci è stata mostrata” (II,319) mettendoci al servizio del popolo cui l’Eterno ci manda e che ci affida.
Il capitolo settimo degli Atti degli Apostoli (7,20-43) - ponendosi nel solco della tradizione ebraica - presenta la vita di Mosè in tre tappe, ciascuna di 40 anni: al v. 23 si dice che “quando furono compiuti 40 anni salì nel suo cuore l’idea di visitare i fratelli, i figli d’Israele”; al v. 30 si afferma che “compiuti altri 40 anni, gli apparve nel deserto del Sinai un angelo in fiamma di fuoco”. Nel libro del Deuteronomio lo stesso Mosè morente dice: “Io oggi ho 120 anni” (31,2: cf. 34,7). Secondo questa rilettura ispirata, la vita di Mosè comprende, dunque, 40 anni alla scuola del Faraone, 40 anni in terra di Madian e 40 anni nel deserto. Quaranta - quattro, numero del mondo definito dai quattro punti cardinali, moltiplicato 10, numero indicativo della perfezione divina - è una cifra piena di simbolismo: tre tappe di 40 anni vogliono dire che ognuna di esse ha un suo proprio significato di valore universale. In esse ogni creatura umana potrà riconoscere qualcosa di sé e rileggere la propria vita come è e come dovrebbe essere davanti a Dio. Si potrebbe riassumere questo significato osservando che nella prima tappa Mosè ignora l’altro, perché è semplicemente centrato su se stesso; nella seconda vive un profondo travaglio di maturazione e di solitudine interiore, che lo porta progressivamente a uscire da sé e ad aprirsi all’Altro e agli altri; mentre nella terza riconosce l’Altro divino accanto a sé e quest’incontro lo porta a scoprire l’altro umano, di cui farsi carico con una totale dedizione d’amore.
1. La prima tappa, i primi 40 anni, sono il tempo dell’utopia, ovvero della dolce incoscienza, in cui Mosè, salvato dalle acque dalla Figlia del Faraone e istruito in maniera raffinata (cf. Es 2 e At 7), vive in un mondo ovattato, protetto. È l’età dei sogni e delle grandi speranze: è l’età di una conoscenza filtrata, piuttosto illusoria della vita e degli uomini, che pone il proprio io al centro e semplicemente ignora l’esistenza e il bisogno degli altri. Come afferma il capitolo 7 degli Atti, “in quel tempo nacque Mosè e piacque a Dio; egli fu allevato per tre mesi nella casa paterna, poi, essendo stato esposto, lo raccolse la figlia del faraone e lo allevò come figlio. Così Mosè venne istruito in tutta la sapienza degli Egiziani ed era potente nelle parole e nelle opere” (vv. 20-22). Quando il Faraone re d’Egitto - preoccupato per la crescita degli Israeliti, popolo schiavo degli Egiziani - stabilisce di far uccidere tutti i loro maschi appena nati, nasce un bambino ebreo, la cui madre riesce a nasconderlo in un canestro galleggiante sul fiume. Quando la figlia del Faraone trova questo fagottino si intenerisce al punto da prendere il bambino con sé. Ha bisogno però di qualcuno che se ne occupi. Si presenta allora una giovane ebrea - in realtà la sorella del fanciullo - che dice alla figlia del Faraone di conoscere un’ottima levatrice, prontamente chiamata. Questa donna non è che la mamma di Mosè, il quale, allattato dalla propria madre, cresce così nella casa del sovrano. Tutti gli agi, i piaceri, le gioie caratterizzano i primi 40 anni della vita di Mosè. Educato in maniera estremamente accurata, diventa un giovane “bene”, uno di quelli il cui mondo è protetto, pieno di ogni conforto e per il quale gli altri non esistono. È un tempo della vita in cui tutto gli sembra bello, possibile, facile, un’età nella quale il confine tra la realtà e il sogno è difficile da marcare, fino al punto che la realtà gli sembra talvolta nient’altro che un’appendice del sogno centrato sul proprio io. Così, Mosè incomincia a sognare di cambiare il mondo misurandolo su di sé. Egli sa, perché la madre - nutrice glielo ha confidato, che è un figlio di Israele, e da giovane brillante, ricco e felice qual è, concepisce nel suo cuore il sogno di essere il liberatore della sua gente. Nella “dolce incoscienza” di questa fase, egli cerca più la propria gloria che non la libertà di un popolo, che in realtà non conosce affatto. Mosè esce così dalla casa del Faraone per andare in mezzo ai figli d’Israele, cui sa di appartenere. Appena fuori dal suo mondo, succede però qualcosa d’inaspettato: gli si presenta la scena di un egiziano che sta percuotendo un ebreo, un suo fratello. Mosè si indigna: davanti a lui, liberatore venuto per fare giustizia, questo egiziano si permette di colpire un figlio di Israele? Preso dalla tentazione - fino allora sconosciuta - della violenza, non sapendo neanche esattamente quello che fa, uccide l’egiziano, per poi pentirsi subito di quello che ha fatto, tanto da nasconderne il corpo, quasi a voler cancellare l’atto compiuto. Quando, però, il giorno seguente un ebreo colpisce in sua presenza un fratello ebreo e Mosè vuole intervenire per ricordare loro la fratellanza che li unisce, lo raggiunge una frase inattesa, tagliente: “Vuoi uccidere me come hai ucciso l’Egiziano?”. I suoi stessi fratelli cominciano a rifiutare quest’uomo, divenuto terribilmente scomodo. Mosè, che pensava di cambiare il mondo e invece è caduto subito nel tipico tranello delle scorciatoie ideologiche, che è la violenza, comincia a capire quanto dura e difficile è la realtà. Prova il grande dolore della sconfitta: il sognatore illuso, il giovane che ha conosciuto la dolce incoscienza, conosce tutta la pesantezza della realtà e comincia a scoprire che c’è un mondo diverso al di là del suo io.
2. Inizia il tempo del disincanto. È questa la seconda tappa della vita di Mosè, la stagione dello scacco, in cui l’illusione cede il posto alla delusione. Osserva lapidariamente il racconto degli Atti: “Egli pensava che i suoi connazionali avrebbero capito che Dio dava loro salvezza per mezzo suo, ma essi non compresero” (At 7,25). In questo “ma” c’è tutta l’amarezza di una frustrazione, la crisi del sogno della sua scelta di vita (cf. vv. 27-29). Mosè conosce l’esperienza dolorosissima di diventare “straniero” a tutti: al Faraone, perché è ormai un ribelle; ai suoi, perché la sua audacia fa loro paura, in quanto temono che comprometta il precario equilibrio della schiavitù in cui si trovano; a se stesso, perché si vede costretto a fuggire, senza conoscere una meta. Lui, il coraggioso che aveva rinunciato ai privilegi, conosce la paura e fugge: “Fuggì via Mosè e andò ad abitare nella terra di Madian, dove ebbe due figli” (v. 29). Uscire da sé è sempre inizialmente doloroso: occorre pagare un prezzo per imparare a guardare fuori delle proprie illusioni e cominciare a scoprire gli altri. Nella terra d’esilio Mosè si va accomodando: pensa di aver fatto abbastanza, abbandona i sogni della giovinezza, ritiene di aver ormai diritto ad una vita tranquilla, senza sorprese o pericoli. È il tempo della rassegnazione, in cui Mosè sembra fuggire alla scelta di andare verso gli altri, diventato incapace di sognare: e quando non si è più capaci di sognare, bisogna preoccuparsi, perché in quel momento può darsi che la nostra anima sia morta anche se il nostro corpo continua a vivere. Lo scacco diventa rinuncia e l’esilio da esterno si fa interiore: Mosè si arrende alla realtà e, per far finta che tutto vada bene, si stordisce, inseguendo il denaro, il successo, il potere. E tuttavia, i 40 anni di Madian sono anche un tempo di bilanci, di maturazione, di solitudine con Dio nel deserto, come non manca di osservare Gregorio di Nissa. Nel disincanto, si prepara la missione degli anni della maturità...
3. È la terza tappa, il tempo della scoperta dell’altro, che comincia con una svolta radicale, segnata dall’irruzione di Dio nella vita di Mosè: “Passati quarant’anni, gli apparve nel deserto del monte Sinai un angelo, in mezzo alla fiamma di un roveto ardente” (At 7,30). Apparentemente all’improvviso, ma in realtà come frutto di una maturazione lenta e profonda, indicativa di un animo che non ha cessato di essere nobile e aperto al mistero, Mosè scopre l’iniziativa di Dio e capisce che - anche se lui non volesse essere interessato a Dio - Dio è interessato a Lui. Si collocano qui i grandi eventi che faranno di Mosè l’anticipazione del Messia e di ogni battezzato in Cristo. Il primo è l’esperienza del “roveto ardente” (At 7,30-31; Es 3,1-15; cf. Es 6,2-13 e 6,28-7,7). Ciò che va evidenziato anzitutto nel racconto è la meraviglia di Mosè: egli sta pascolando il gregge nell’area del monte Sinai ed ecco che improvvisamente vede un arbusto che arde senza consumarsi. “Si avvicinò per guardare...”: è importante questa annotazione, perché ci dice che Mosè, sebbene ne abbia viste tante, continua ad essere in grado di meravigliarsi. Chi è capace di stupirsi, è anche in grado di aprirsi al nuovo, all’altro da sé! Dove c’è meraviglia, c’è apertura alla novità di Dio, alla Sua impossibile possibilità! Solo dove non c’è meraviglia, non c’è più vita, non c’è più sorpresa. Mosè non ha cessato di essere un pellegrino, un cercatore; nonostante si sia adattato all’esilio, il suo cuore continua a desiderare segretamente la patria, una bellezza che non ha ancora incontrato.
È a questo punto che arriva la chiamata di Dio: “Mosè! Mosè!”. Dio chiama per nome. Nessuno è anonimo davanti a Lui: ognuno di noi è un “tu” assolutamente unico, singolare, oggetto di un amore infinito. Mosè si sente amato personalmente da Dio. Non è l’esperienza di un voler catturare Dio per sé: al contrario, l’ammonimento è chiaro, “Non avvicinarti, togliti i sandali...” (Es 3,4-6). È un lasciarsi afferrare da Dio, un accettare di uscire da sé incontro a Lui che viene! Dio ti cambia il cuore e la vita, sì che vedi il mondo con occhi completamente nuovi. Il Dio che chiama non è, insomma, qualcosa di cui ti puoi impossessare: è Qualcuno davanti a cui restare nello stupore dell’ascolto e dell’attesa, lasciando che Lui sia Altro rispetto a te e che faccia Lui... Occorre aprirsi alla Sua impossibile possibilità, non alla possibilità calcolata che vorremmo imporgli. Il Dio che chiama non è una proiezione di te, del tuo desiderio o delle Tue paure, ma è il Dio dei padri, il Dio trascendente, che si dà a conoscere come Colui che è per te: “Sono io che ti mando”. Non è più lui, Mosè, il protagonista, che decide e pretende di cambiare il mondo: è l’Altro, è Dio che lo chiama e lo manda. “Va’ dal Faraone”. Mosè accetta il nuovo inizio. Dio rende possibile l’impossibile: il Suo nome è una promessa, “Io sono Colui che sono”, “Io sarò con Te”, il Dio fedele (Es 3,14). Mosè non ha chiesto la definizione dell’essenza divina: ciò che ha chiesto è che Dio si impegni per lui e il suo popolo. Il Nome santo e benedetto è una garanzia, fondata sulla fedeltà del Dio vivente, in base alla quale Mosè può iniziare la sua avventura alla scoperta degli altri.
4. Mosè si lascia sovvertire da Dio: da protagonista accetta di farsi servo dell’Altissimo. Dio è il Dio che sconvolge, che chiede tutto e a cui si deve dare tutto. È a questo punto che Mosè sperimenta la prova della fede, il passaggio del Mar Rosso (Es 14,5-15,20: cf. 1 Cor 10,1-2; Eb 11,29). Da una parte c’è il mare con i suoi flutti, dall’altra il Faraone con i suoi cavalli e i suoi carri. In mezzo il popolo di cui ha accettato di farsi carico a proprio rischio e pericolo in obbedienza a Dio. La logica umana imporrebbe una decisione orientata al compromesso. Mosè ha paura: umanamente l’alternativa è fra la morte nel mare o la resa al Faraone (cf. Es 14,10-14). La scelta si impone: o fidarsi di Dio o calcolare secondo la logica degli uomini. Mosè non esita a rassicurare il popolo, a incoraggiarlo: “Non abbiate paura. Siate forti e vedrete la salvezza del Signore” (v. 13). Quando però è solo davanti a Dio, avverte un peso enorme, il peso della responsabilità per gli altri, perché abbandonarsi a Dio può sembrare una rinuncia ad agire. Nella solitudine grida al suo Dio, tanto che l’Altissimo gli chiede: “Perché gridi verso di me?” (V. 14). Eppure, continua a testimoniare al popolo la fiducia nella fedeltà dell’Eterno: “Il Signore combatterà per voi” (v.14). Mosè è ormai un vero capo, perché sa che quello che può permettersi nel contatto diretto con Dio, deve mediarlo con saggezza d’amore ai suoi: non bisogna mai scaricare le proprie croci sulle spalle di chi è più debole! Mosè comprende, insomma, che gli altri sono la vera misura del suo amore a Dio, e si apre a una possibilità, che umanamente appare impossibile: credere in Dio nonostante l’apparente sconfitta di Dio. È così che Mosè giunge all’atto più importante della sua vita: si fida dell’Altro, crede in Dio contro ogni evidenza, si espone per il suo popolo. Nell’oscurità del salto della fede, obbedisce al Signore che gli dice: “Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto” (vv. 15s). È a questo punto che le acque del mare si aprono, il popolo passa fra di esse incolume, gli Egiziani che lo inseguono vengono travolti. Il simbolismo è tragico e durissimo: le acque della vita per gli uni sono le acque della morte per gli altri. Mosè, il condottiero della fede che passa attraverso il mare, è il salvato dalle acque che salva il suo popolo. È allora che conosce il trionfo della fede e dell’amore vero per gli altri: nella notte, fidandosi ciecamente, senza vedere, compie il passaggio regale ed esplode dal suo cuore il cantico della riconoscenza, il cantico dei salvati (cf. Es 15). Da allora in poi sarà quel che è stato in quella notte al Mar Rosso: l’uomo dell’intercessione e della responsabilità verso gli altri (cf. Es 17), l’uomo della Parola (cf. Es 19,3), colui che soffre per amore del suo popolo e per amore del suo Dio, in un continuo esodo vissuto nella speranza verso la terra della promessa di Dio. Vivere per l’Altro e per gli altri richiede il dono incondizionato di sé, ma è anche l’esistenza che vale la pena di essere vissuta più d’ogni altra.
A 120 anni si conclude la vita di Mosè: secondo il racconto del Deuteronomio Mosè muore solo, in obbedienza a Dio, senza entrare nella terra della promessa. “Il Signore disse a Mosè: Sali su questo monte degli Abarim, sul monte Nebo, che è nel paese di Moab, di fronte a Gerico, e mira il paese di Canaan, che io dò in possesso agli Israeliti. Tu morirai sul monte sul quale stai per salire” (Dt 32,49s). È commovente quest’andare a morire solo, di un uomo che è giunto a vivere totalmente per gli altri in obbedienza a Dio: “Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l’ordine del Signore” (Dt 34,5). Nella solitudine, sull’alto del monte, un Altro lo accoglierà. E mentre gli farà contemplare da lontano la terra promessa al suo popolo, gli darà quella di cui essa è simbolo... La morte di Mosè - come quella del cristiano, salvato dalle acque e perciò custode della speranza del Risorto - non è semplice tramonto, ma aurora di vita: “dies natalis”, giorno della nascita, e non giorno della fine, soglia dove l’Altro divino chiama all’ultimo esodo e accoglie nel compimento della Pasqua eterna chi ha accettato di vivere nella fede l’amore per gli altri.
È così che Mosè interpella la nostra vita di salvati nelle acque del battesimo, redenti dalla Pasqua di Gesù: dove siamo nel cammino della fede? Qual è la tappa in cui ci riconosciamo? Abbiamo veramente superato il tempo dell’utopia, che per l’umanità di cui siamo parte è stato il tempo delle ideologie e dei sogni della modernità emancipata, e per noi la stagione dell’assoluta centralità dell’io e dell’indifferenza all’altro? Abbiamo attraversato il disincanto o siamo ancora in esso, fra illusione e delusione amara? Siamo entrati fino in fondo nella notte della fede alla scoperta dell’Altro che ci chiama a uscire da noi stessi? Abbiamo attraversato con Gesù, il nuovo Mosè, il nostro Mar Rosso, mettendoci in gioco fino in fondo per amore di Dio e degli altri? Ci siamo incamminati decisamente con Lui verso la terra della promessa al servizio del prossimo? Vi stiamo conducendo con fedeltà e speranza coloro che ci sono stati affidati? Con umiltà e fiducia chiediamo al Signore che ha liberato il Suo popolo e sempre di nuovo lo guida a libertà di liberare sempre più profondamente anche noi, immergendoci senza sosta nell’oceano del Suo amore infinito, guidandovi gli altri che Lui ci ha affidato? Chiediamo tutto questo, ispirandoci alle parole di Gregorio di Nissa: “Rendici, Signore, come Mosè ardenti amanti della bellezza, che, accogliendo quanto via via ci appare immagine del Desiderato, bramino di saziarsi del Modello originario, volendo anzi con richiesta temeraria, che supera i limiti del desiderio, godere della bellezza non attraverso specchi e riflessi, ma faccia a faccia... Come a Mosè, dona anche a noi di sapere che si vede veramente il Tuo Volto quando vedendolo non si cessa mai di desiderare di vederlo... Amen. Alleluia!” (cf. Vita di Mosè, II, 232s). Signore, facci pellegrini verso Te e verso l’altro accanto a noi, immagine del Tuo volto e voce della Tua chiamata a vivere l’esodo da noi stessi senza ritorno, per solo, umile, esigente e concretissimo amore! Amen.
L’ALTRO ACCANTO A NOI-LA VITA DI MOSÈ E LA NOSTRA
(Alla Caritas Diocesana, Chieti, 18 Gennaio 2014)
+ Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto