Le parole di Francesco tra diplomazia e profezia
Il discorso che Papa Francesco ha tenuto il 24 settembre scorso all'Assemblea Plenaria del Congresso degli Stati Uniti d'America, "terra dei liberi e casa dei valorosi", come l'ha definita citando l'inno americano, ha una portata storica non solo perché per la prima volta un Pontefice romano parlava al consesso decisionale della più grande potenza politica mondiale, ma anche e in modo particolare per quello che il Papa venuto dal Continente americano ha detto e per la modalità che ha usato. Le Sue parole sono state una singolare combinazione di profezia e di diplomazia, due attitudini che sembrano stridere fra loro, tanto che espressioni come “diplomazia profetica” o “profezia diplomatica” appaiono a prima vista degli autentici ossimori. Il discorso è stato, invece, un esempio di diplomazia, gravido di carica profetica, perché Francesco ha saputo proporre le esigenze più alte di giustizia e di impegno per la pace toccando al contempo le corde più sensibili della coscienza del popolo americano, a cominciare dal riferimento al “sogno americano”, l’“american dream”, considerato la molla propulsiva sul piano ideale degli sforzi fatti da quella grande Nazione per realizzare il proprio progresso e disegnare il suo posto nella storia. L’attenzione che il Papa ha avuto presente è stata quella di non declinare il “sogno americano”, come spesso viene fatto, nelle due direzioni opposte con cui viene usualmente presentato, quella critica dell’accusa di imperialismo, tante volte mossa agli Stati Uniti e alla loro azione politica negli scenari internazionali, e quella di un ottimismo enfatico, che intende solo celebrare le conquiste della grande potenza del nuovo mondo, senza evocarne le ombre e i costi. Nelle parole di Francesco il “sogno americano” è stato proposto come un grande sogno, proprio di un popolo libero e coraggioso, meritevole del più sincero rispetto, ed insieme come una tensione ideale che non può ignorare i sacrifici costati e ancora necessari e gli errori spesso compiuti specialmente nel sostegno a governi dittatoriali e a sistemi palesemente ingiusti. L’intuizione del Papa argentino - che si è presentato lui stesso come un figlio di emigranti, solidale dunque nelle origini e nelle speranze più profonde con la gran parte degli Americani - è stata quella di evocare il sogno attraverso figure chiave che lo rappresentano nella coscienza diffusa della gente d’America, riuscendo in tal modo a evidenziare in maniera concreta quei valori per cui queste figure si sono battute e che restano ancora in varia misura da assicurare a tutti, nessuno escluso. Dopo aver richiamato le categorie che costituiscono il popolo nella sua concretezza, dagli anziani ai piccoli, dai giovani agli adulti, per rivolgersi veramente a tutti, Francesco ha menzionato quattro grandi Americani: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton. Nel Presidente Lincoln, di cui ricorre quest’anno il centocinquantesimo anniversario dell’assassinio, il Papa ha riconosciuto “il custode della libertà, che ha instancabilmente lavorato perché questa nazione, con la protezione di Dio, potesse avere una nuova nascita di libertà”. Raccoglierne l’eredità non è compito facile, atteso il fatto che oggi “il mondo è sempre più un luogo di violenti conflitti, odi e brutali atrocità, commesse perfino in nome di Dio e della religione”. Custodire la libertà di tutti vuol dire allora rifiutare energicamente “ogni forma di fondamentalismo, tanto religioso come di ogni altro genere”, impegnando le energie di tutti e di ciascuno a “combattere la violenza perpetrata nel nome di una religione, di un’ideologia o di un sistema economico”, senza comode semplificazioni, volte a identificare il nemico contro cui lottare, vigilando anzitutto su se stessi. Perché questo avvenga è necessario tenere alto il senso della dignità e dei diritti di ciascuno, facendosi eredi della vita e dell’opera di uomini come Martin Luther King, condividendone “il sogno di pieni diritti civili e politici” per tutti, specie per i più svantaggiati. Concretamente questo vuol dire ai nostri giorni non aver paura degli stranieri, “rifiutando una mentalità di ostilità per poterne adottare una di reciproca sussidiarietà, in uno sforzo costante di fare del nostro meglio”. A tal fine occorre ispirarsi sempre alla regola d’oro: “Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te” (Mt 7,12). È l’esempio lasciato da Dorothy Day, donna che la Chiesa ha dichiarato “serva di Dio”, indicandola come modello cui ispirarsi perché ha insegnato a trattare “gli altri con la medesima passione e compassione con cui vorremmo essere trattati”, cercando per loro “le stesse possibilità che cerchiamo per noi stessi”. Qui Francesco ha inserito il suo appello netto e deciso all’abolizione globale della pena di morte, nella convinzione che “ogni vita è sacra, ogni persona umana è dotata di una inalienabile dignità, e la società può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannati per crimini”. E qui ha affermato che la promozione di tutto l’uomo in ogni uomo implica un impegno a favore della vita senza condizioni, che si traduca nella “lotta contro la povertà e la fame combattuta costantemente su molti fronti, specialmente nelle sue cause” e sia estesa nel servizio a difesa della vita umana in tutte le sue fasi e nell’azione di custodia del creato, casa comune di tutti. Il riferimento al monaco cistercense Thomas Merton, altro grande americano, è stato infine proposto da Francesco quale “fonte di ispirazione spirituale e guida per molte persone”. Merton era anzitutto un uomo di preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze del suo tempo - il cosiddetto “secolo breve” delle due guerre mondiali e dei tragici genocidi - e ha aperto nuovi orizzonti, promotore di dialogo e di pace tra popoli e religioni. Qui la voce del Papa si è fatta eco degli “sforzi fatti nei mesi recenti per cercare di superare le storiche differenze legate a dolorosi episodi del passato”, sforzi dei quali è stato egli stesso instancabile ispiratore come dimostra il riavvicinamento fra Cuba e gli Stati Uniti. “È mio dovere - ha detto - costruire ponti e aiutare ogni uomo e donna, in ogni possibile modo, a fare lo stesso”. È l’impegno, dunque, richiesto a tutti, ben sapendo come esso esiga “coraggio e audacia” specialmente ai politici, il cui compito prioritario deve essere quello di “iniziare processi più che possedere spazi”. Il no deciso al commercio delle armi, legato all’avidità, ha trovato qui il suo posto, insieme alla sottolineatura del dovere di tutti a non tacere, preferendo un “vergognoso e colpevole silenzio” all’urgenza di “affrontare il problema e fermare il commercio delle armi”. Perché i quattro modelli richiamati siano vera fonte di ispirazione Francesco ha infine sottolineato il valore prezioso della famiglia, cui è dedicato l’Incontro Mondiale di questi giorni a Filadelfia, dove si concluderà il suo viaggio americano. La famiglia è il grembo naturale dove maturano le scelte che fanno grandi una vita e un popolo: “Una nazione può essere considerata grande quando difende la libertà, come ha fatto Lincoln; quando promuove una cultura che consenta alla gente di sognare pieni diritti per tutti i propri fratelli e sorelle, come Martin Luther King ha cercato di fare; quando lotta per la giustizia e la causa degli oppressi, come Dorothy Day ha fatto con il suo instancabile lavoro, frutto di una fede che diventa dialogo e semina pace nello stile contemplativo di Thomas Merton”. È anzitutto nel tessuto delle relazioni familiari che modelli del genere possono essere riconosciuti, imitati e proposti, per divenire attraenti su coloro in cui si prepara e già inizia il futuro di tutti.
Bruno Forte Arcivescovo di Chieti – Vasto
Il Sole 24 Ore, Domenica 27 Settembre 2015