LA DOMENICA DI ABRAMO
Premessa
Eccoci a presentare l’ultimo lavoro dell’ampio ciclo pittorico commissionato dal Parroco, don Gianluigi Panzeri, al pittore Iulian Rosu.
Ora davvero possiamo gustare, leggere, comprendere per intero la complessa opera eseguita con fantasia, passione, rispetto delle fonti evangeliche.
Un progetto offerto alla locale Comunità allo scopo di promuovere una maggior comprensione delle pagine evangeliche. Una feconda opportunità che, se correttamente accolta, invita a scoprire, fare nostri per viverli, gli insegnamenti biblici dell’Antico e Nuovo testamento. Un modo, come scriveva San Paolo VI di “rendere accessibile il mondo spirituale conservandone il carattere inesprimibile, l’alone di mistero”[1].
Così Pierluigi Lia definisce l’arte cristiana: “L’arte cristiana non esprime meramente una ‘rappresentazione’ o raffigurazione di Dio, ma traduce, ben più profondamente, l’inculturazione vissuta: cioè la perenne, dinamica e drammatica attualità di Cristo che con la sua incarnazione è divenuto definitivamente fratello e amico di ogni uomo, di ogni epoca, di ogni linguaggio, di ogni immagine” e “concorre allo sviluppo della lingua propria di ogni comunità credente: lingua della liturgia, della preghiera, della testimonianza, lingua del variegato universo che la comunità condivide”. Precisa poi che “… un’opera d’arte cristiana è parola e non è destinata …. ai critici d’arte, ai collezionisti e agli estimatori, ma serve la comunicazione della fede ed è destinata in primis al credente…”[2].
Queste dodici grandi Icone di 5 mt x 4 hanno completamente mutato, positivamente, l’aspetto della basilica grazie alla sostanziale bellezza fatta da ricca cromia, disegno accurato, ricercata fusione ambientale, fedeltà ai testi dei Vangeli. Un ciclo che, ne siamo certi, ha anche stimolato l’attenzione, la cura e l’affetto dei fedeli di questa comunità milanese alla propria chiesa, all’arte e alla Bellezza. L’opera di Iulian, avendo un’anima pittorica legata ai modi dell’arte bizantina, comuni sino all’avvento di Giotto all’intero mondo cristiano e ora un retaggio quasi esclusivo dei cristiani ortodossi, rappresenta anche un recupero storico, culturale e fecondo esercizio ecumenico.
Presentazione del dipinto
Veniamo ora alla lettura di questa ultima opera che richiede una accurata spiegazione; si tratta di un’importante pagina del Vangelo di Giovanni (8,31-59) che viene letta nella liturgia ambrosiana della terza domenica della Quaresima che ha per titolo: “La domenica di Abramo”.
Il capitolo di Giovanni, difficile da raffigurare, ha richiesto un impianto scenografico ricco d'immagini simboliche ed è il risultato dello stretto rapporto tra il Committente e il Pittore.
Il tema trattato è quello della vera identità di Gesù. Le immagini parlano: al centro c’è la figura di Gesù che porta sopra la tunica rossa che richiama il tema del sacrificio, il mantello di un intenso blu che nel colore è identico al mantello del Sommo Sacerdote che si trova sotto il tempietto sulla destra: se questi, riconoscibile dall’efod [3] che porta sul petto, rappresenta il Sommo Sacerdote dell’Antico Testamento, Gesù è invece il Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento, infatti mentre il mantello del primo è trapuntato con dorate stelle di Davide, il mantello del secondo è trapuntato con dorate croci che ricordano che Gesù ha offerto il sacrificio della sua vita una volta per sempre. Nello stesso tempo l’identico intenso colore blu dice, in ogni caso, la continuità tra l’antico Sommo Sacerdozio e il nuovo, tra l’antica e la nuova alleanza. Gesù, collocato su un ripiano ligneo che ne rileva la centralità, tiene in mano anche in questa icona un cartiglio di pergamena della Parola di Dio chiuso, avvolto, perché lui con la sua vita è in realtà un cartiglio aperto, svelato, non serve che lo srotoli come invece fanno i suoi interlocutori ostentando i rotoli della Legge. In primo piano il rotolo con la preghiera dello Shemà Israel .
In alto a destra il tempietto che vuole essere un richiamo al Tempio di Gerusalemme, al centro un riferimento alla nostra basilica e alla sinistra il Duomo di Milano, accuratamente riprodotto. Tutto l’impianto architettonico è raccordato da un drappo rosso e giallo. Nella simbologia dell’arte bizantina l’uso del drappo indica che la scena raffigurata si svolge all’interno di un luogo, il tempio di Gerusalemme, ornato da un ricco pavimento dal complicato disegno. Ma qui il drappo assume un altro significato: raffigura lo stretto e irrinunciabile legame tra Antico e Nuovo Testamento e tra l’antica religione del Tempio degli ebrei che continua nella religione cristiana che si riconosce nella cattedrale milanese.
Dietro il tempietto ricco di una decorazione simile a quella del pavimento, Iulian ha dipinto un velo rosso ricamato di stelle che ricorda la cortina di porpora violacea e scarlatta (come indicato nel libro dell’Esodo) che nel santuario separava la parte più sacra, il Santo dei Santi dove era conservata l’Arca dell’Alleanza e dove poteva entrare solo il Sommo Sacerdote una volta all’anno nella festa dello Jom Kippur. Quel velo del tempio al momento della morte di Gesù si squarciò (Mt 27,51; Mc 15,38; Lc 23,45) come a suggerire che quel giorno Dio uscì dal Tempio squarciando il velo per essere con Gesù sulla croce.
In una finestra è raffigurato con evidenza il candelabro d’oro dalle sette braccia collocato nel Tempio di Gerusalemme il cui nome ebraico “Menorah” (ebraico: מנורה la radice “or” significa “luce”) indica il candeliere ad olio[4] e ricorda i sette giorni della creazione.
Gesù con un atteggiamento serio e deciso è impegnato, in una provocatoria discussione con i sacerdoti. Il sommo sacerdote ostenta un rotolo della Legge, atteggiamento condiviso dagli altri rabbini giusto per rimarcare la loro identità di figli di Abramo e la fedeltà alle tradizioni, anche se, come dice Giovanni, avevano, inizialmente creduto in Gesù.
Gesù li provoca e li invita a ‘rimanere’ nella sua Parola come unica e vera fonte di libertà. Essi non accettano di affidarsi totalmente a Gesù, anzi si sentono offesi. Rivendicano la paternità di Abramo e lo accusano di essere “un samaritano e un indemoniato”.
Gesù li smaschera ricordando loro che la fede di Abramo[5] è fiducia assoluta nella Parola di Dio senza pretendere garanzie. Gesù esce quindi nell’espressione “Prima che Abramo fosse, Io Sono” con la quale afferma la propria divinità. “Io sono” è infatti la traduzione del nome di Dio, Jahvè: Abramo era vissuto 1800 anni prima della nascita di Gesù, ma Lui rivendica la propria anteriorità ad Abramo esattamente perché Lui è Dio venuto tra noi (“Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” Gv 1,14). I Giudei interlocutori di Gesù hanno capito quale era la pretesa di Gesù (“Chi credi di essere?” 8,53) e per questo raccolgono delle pietre con lo scopo di lapidarlo perché Gesù avrebbe proferito una bestemmia. “Ma Gesù si nascose e uscì dal tempio” (8,59): sembra suggerire l’evangelista Giovanni, Dio, allora, da quel momento non abita più nel tempio di Gerusalemme.
Dietro Gesù sono raffigurati cinque apostoli guidati da Pietro che, con atteggiamento di forza ed estrema fiducia, ha in mano un cartiglio aperto con la scritta “Tu sei Cristo”. È la sua confessione di fede come riferiscono i Vangeli sinottici (Mt 16,13-20; Mc 8,27-30; Lc 9,18-21) che è certamente iniziale ma porta in sé la futura fede della Chiesa[6].
[1] JEAN GUITTON, Dialoghi con Paolo VI, Mondadori 1967.
[2] PIERLUIGI LIA, Dire Dio con arte – Un approccio teologico al linguaggio artistico, Ancora 2003.
[3] Il Sommo Sacerdote aveva diritto di portare nel suo ministero sacro il pettorale con specie di ricca borsa quadrata con dodici gemme preziose recanti i nomi delle tribù, e a essa inclusi o annessi i misteriosi urim e tummim, mezzi per consultare Jahvè circa la sua volontà e le sorti delle tribù e del popolo.
[4] La sua forma, le sue misure sono descritte dettagliatamente nel libro dell’Esodo (25,31-32). Ricordiamo, tra l’altro, che il nostro Duomo espone nel transetto di sinistra, dalla metà del Cinquecento grazie al dono di Giovan Battista Trivulzio, un gigantesco candelabro bronzeo dalla sette braccia, opera gotica di anonimo maestro anglo-normanno dei primi del Duecento. È decorato con figure allegoriche, pietre preziose, simboli zodiacali e religiosi.
[5] Abramo era uomo di poche parole ma capace di ascoltare, infatti, come ci ricorda Carlo Maria Martini: “Abramo ascolta. Quindi la prima grande attività di Abramo orante è l’ascolto. E ancora. “Ascolta la parola di Dio e la mette in pratica … i veri figli di Abramo sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”. C. M. MARTINI, Le virtù del cristiano - meditazioni per ogni giorno, Centro Ambrosiano e Edizioni Piemme 1988.
[6] Papa Benedetto XVI, Udienza generale del 24 maggio 2006.
(L. Bissoli)